etica

"... Non vogliate negar l'esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza". (Dante, Inferno canto XXVI, 116-120).


giovedì 4 ottobre 2012

Dimensione profetica della Dottrina Sociale della Chiesa



Il capillare e profondo inserimento della nostra Associazione nel tessuto sociale di base e il suo riconosciuto contributo alla costruzione dello Stato democratico, dall’ottobre del 1944 in avanti, ci inducono a riflettere non solo sul suo glorioso passato, ma anche sul suo presente e, ancor più, sul suo futuro. E, quindi, prendendo spunto dal ricco e prezioso testo qui di seguito riportato, è da osservare che  è la storia stessa a chiedere, con crescente e pressante urgenza, di riflettere su quali “nuove responsabilità” incombano sull’Associazione, considerato che l’attuale nuova situazione di crisi diffusa, in una società globale multiculturale, multietnica e multi religiosa, crisi generata dai sempre più accelerati processi della globalizzazione richiede, da parte sua, “un nuovo atteggiamento”. È sempre più urgente quindi intensificare la nostra riflessione per discernere su quel che possa ciò significare: si tratta, soprattutto, di valutare di “cosa” disfarci come di un peso,  di “cosa” valorizzare e potenziare e quali nuove vie, nella continuità, intraprendere.
È certo che la “storia non si arresta … è necessario tener conto dell’imprescindibile realtà, la realtà in tutta la sua estensione”, in un momento di grave crisi in Europa e nel mondo, sul piano strutturale e dei valori e, per quel che riguarda, in particolare il nostro Paese, anche di annunciate, non trascurabili riforme, soprattutto costituzionali.
E, allora, quali “anticipazioni” vuole dare/è in grado di dare la nostra Associazione di donne cristiane, nell’espressione della sua missionarietà nel sociale?
In breve, quale può essere la sua capacità di “profezia”, sia al suo interno, da parte delle singole associate, che al suo esterno, in quanto soggetto collettivo, di chiara identità e testimonianza cristiana, in un mondo sempre più complesso, profondamente ed estesamente in cambiamento? 
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Il discorso sociale della Chiesa applica la Parola di Dio alla vita degli uomini e della società, come anche alle realtà terrene che ad esse si connettono, offrendo “principi di riflessione”, “criteri di giudizio” e “direttrici di azione” (enciclica Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II, 1987 par.8); il Papa conclude tale osservazione, aggiungendo che “esso (il discorso sociale) è ordinato alla condotta morale“ delle persone e delle società. Questa definizione è molto chiara: essa mostra che la dottrina sociale della Chiesa non si riduce a un insieme di prese di posizione, quali possono essere definite dagli attori sociali: questi individuano “le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie”, (Paolo VI, Octogesima Adveniens, 1971 par.4), in funzione di principi fondamentali sui quali fondare le proprie decisioni. In altri termini, essi inscrivono il Vangelo nel contesto socio-culturale del momento. E’ su tale livello che è possibile discernere il carattere profetico della dottrina sociale della Chiesa.

Conviene qui rifarsi all’allocuzione che Pio XII rivolse al Patriziato romano, il 14 gennaio 1945. Suo scopo era quello di convincere una classe sociale, tradizionale e ridotta di numero, che nuove responsabilità incombevano su di essa, nel contesto della ricostruzione del dopo-guerra. Si trattava di far scoprire a un gruppo sociale, abituato a dare preminenza alla tradizione, che la situazione nuova richiedeva, da parte sua, un nuovo atteggiamento; non si sarebbe infatti più trovato in una società stabile e gerarchizzata, ma democratica e in costante cambiamento: “La storia non si arresta” disse loro; “sarebbe un’impresa vana e sterile fare marcia indietro … e voler ricondurre il mondo a un punto di partenza, (anche se alcuni lo giudicano) malauguratamente abbandonato” e concludeva “è necessario tener conto dell’imprescindibile realtà, la realtà in tutta la sua estensione”.

È in tale prospettiva che comincia a manifestarsi il carattere profetico della dottrina sociale della Chiesa. Le situazioni in cui tutto sembra possibile, poiché le popolazioni hanno l’impressione che un mondo nuovo cominci, si riproducono periodicamente nella storia: così è stato al momento della Rivoluzione americana nel XVIII secolo, in cui un autore americano, Payne, pensava che tutto fosse divenuto possibile, come al tempo di Noé dopo il diluvio, poiché il passato era abolito; altrettanto è accaduto negli anni ’50, in cui si credeva possibile l’instaurazione di una pace perpetua, fondata sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Il cristiano non rifiuta questa aspirazione, ma non fa affidamento sui soli sentimenti per condurla a termine; non si lascia portare dal politically correct del momento:  la interpreta alla luce di Cristo; vede nell’immensa crescita umana alla quale assiste un motivo di speranza; ma egli sa che tutto non è possibile e che devono essere compiute delle scelte, nel rispetto delle leggi costitutive che il Creatore ha dato al mondo. Il suo scopo non è quello di realizzare di colpo, con un programma ritenuto efficace, la città ideale sulla quale può sognare, ma, tenendo conto degli arresti  della realtà e dell’impossibilità di negarli, cerca in qual modo anticipare la venuta di Cristo nella realtà presente.  
L’atteggiamento sociale del cristiano profetizza la sua fede nel mondo a venire. Per lui, il Cristo è la chiave che permette di comprendere il senso della storia nella quale è impegnato. Affermazione che ha un doppio significato per il cristiano, poiché riguarda:

Il suo atteggiamento verso il mondo. La diversità del mondo e lo scontro fra civiltà non spaventano il cristiano perché per lui la situazione presente, per quanto caotica possa apparire, non è peggiore di molte altre che l’hanno preceduta  nel corso della lunga storia della umanità; riconosce attraverso tali crisi una crescita generalizzata verso “un di più” in universalità, in solidarietà e in esigenza di rispetto della persona umana. Già Paolo VI dichiarava nel suo messaggio per la giornata della pace nel 1972: “Ogni uomo oggi sa di essere persona e persona si sente. Cioè di essere inviolabile, essere agli altri eguale, essere libero e responsabile. Diciamo pure: di essere sacro”.

Il suo atteggiamento personale. Il cristiano sa che ogni essere umano ha vocazione a lavorare, là dove si trova, al divenire dell’umanità. Il suo comportamento e le sue scelte nella vita quotidiana “anticipano” nel presente la fede che egli ha nella riconciliazione dell’umanità nel Cristo. Egli è, al suo livello, profeta del mondo a venire. E’ guidato per questa missione dall’insegnamento della Chiesa in materia sociale, nel quale trova “un corpus dottrinale, che si articola man mano che la Chiesa, nella pienezza della Parola rivelata da Cristo Gesù e con l’assistenza dello Spirito Santo, va leggendo gli avvenimenti mentre si svolgono nel corso della storia” (Sollicitudo Rei Socialis,1). 

Pdre Joseph Joblin, sj - (Cronache e Opinioni n.6 giugno 2010)

mercoledì 3 ottobre 2012

Il Bene comune

La riflessione che offriamo chiarifica e approfondisce quanto in più punti indicato dal Santo Padre Benedetto XVI nella sua Caritas in Veritate, in particolare: «accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene» (CV, 7).
Quindi, esistenzialmente, nella storia, senza alcuna fuorviante astrattezza.
Alba Dini Martino


Le società umane sono organizzate gerarchicamente: in ciascuna di esse, alcuni comandano su altri, a dispetto della loro fondamentale uguaglianza. Nei regimi autoritari, i governanti giustificano la loro autorità con il fatto che hanno il potere di imporla. La prospettiva cristiana è differente. Colui che detiene l’autorità non l’esercita legittimamente se non nel caso in cui egli agisca e comandi in vista di procurare all’“insieme dei cittadini”  “le condizioni esterne … necessarie… per lo sviluppo delle loro qualità, delle loro funzioni, della loro vita materiale, intellettuale e religiosa”, (Pio XII, Radio-Messaggio, 24 dicembre 1942). Il bene comune è dunque costituito dall’insieme delle condizioni necessarie allo sviluppo della vita materiale, intellettuale e religiosa dei membri di una società affinchè raggiungano una qualità della vita compatibile con la loro dignità di esseri umani, (Pio XII, Radio-Messaggio,  (24 dicembre 1942), Pacem in Terris, (1963), Gaudium et Spes, 74.4, Dignitatis humanae, 6). Questa prima definizione offre una spiegazione della posizione di ognuno di noi nella società; si tratta per ognuno di noi di salvare la propria anima, secondo l’espressione tradizionale, compiendo il bene con e per gli altri.
Le suddette considerazioni hanno una portata pratica. Tutti gli individui, come tutti i gruppi sociali che essi formano aspirano alla pace. Ora, questo obiettivo non può essere raggiunto se gli uni e gli altri non accettano di conciliare le proprie aspirazioni particolari con quelle degli altri, individui o comunità. Un tale sforzo presuppone, perché possa essere compiuto pacificamente, che esista un bene, comune all’insieme del genere umano e che esso sia considerato come il “principio direttivo” intorno al quale si realizza la conciliazione degli interessi particolari in vista di un bene superiore. Tale processo è così naturale ed elementare che può essere verificato all’opera anche a livello stesso di famiglia; la sua coesione non può in effetti essere assicurata se ciascuno dei suoi membri non accetta di conciliare le sue preferenze personali con quelle degli altri membri del gruppo. Il bene comune è dunque, nello stesso tempo, individuale e comunitario; si rivela essere un concetto di analisi delle realtà sociali e un criterio di riferimento quando si cerca di conciliare  rivendicazioni particolari, opposte.

Beni comuni particolari
e bene comune universale
Filosofi e teologi hanno analizzato le componenti del bene comune. Essi hanno distinto tre livelli: 1) quello concernente le questioni relative all’esistenza (abitazione, vitto, vestiti) e alla sicurezza; 2) quello della garanzia giuridica di tali diritti fondamentali, fra cui l’attivazione di istituzioni che favoriscano la “partecipazione organica” (Paolo VI) delle diverse forze sociali alla gestione della comunità; 3) quello della protezione e dell’approfondimento dei valori che fondano l’unità delle società. Queste tre componenti del bene comune si ritrovano in tutte le società, così come nella famiglia, nelle organizzazioni professionali, i sindacati, le organizzazioni non governative … come pure nello Stato e nella società internazionale.

La messa in opera del bene comune
Non manca il nascere di conflitti fra le società e all’interno di queste per determinare ciò che, in un momento dato, costituisce il bene comune di un gruppo, di una nazione o della società internazionale, poiché gli uni e gli altri ne hanno spesso rappresentazioni diverse. Per la dottrina sociale della Chiesa l’obbligo di ricercare il bene più universale proviene dalla sua antropologia. Da una parte, il riconoscimento di leggi superiori permette a opinioni diverse di avvicinarsi in un’atmosfera di mutua lealtà, nella ricerca di ciò che è giusto e vero, in una situazione data; dall’altra, la rinuncia a dei beni particolari nell’amore e nella reciproca fiducia conduce gli individui a distaccarsi da se stessi e a entrare in comunione con altri, verso un bene superiore; altrettanto avviene in famiglia, come in tutte le comunità che si costituiscono su di esse.  Questa concezione rende l’uomo, che vive in società, artefice del proprio destino; essa si oppone alle dottrine politiche che esigono dall’individuo di mettere tutte le sue forze a servizio di un partito o di una ideologia; essa esige che le autorità, ognuna al suo proprio livello, si pongano al servizio del bene delle persone. I regimi totalitari, partendo dal principio che la felicità dell’individuo dipende dalla sua identificazione con l’ideologia ufficiale, si oppongono a ogni tentativo degli individui di prendere parte attiva e libera alla determinazione del bene comune nello Stato, arrivando fino a vietare l’educazione religiosa nel momento in cui essa sviluppa il senso di responsabilità degli individui nei confronti della società; le società consumistiche compromettono anch’esse il perseguimento del bene comune quando favoriscono “abitudini di consumo e stili di vita” che anestetizzano nell’uomo  “il rifiuto di trascendere se stesso e di vivere l’esperienza del dono di sé e della formazione di un’autentica comunità umana, orientata al suo destino ultimo che è Dio” (Centesimus Annus, 36, 41).  I popoli hanno spesso rifiutato nel corso del 20° secolo di fare della reciproca benevolenza (la “civiltà dell’amore”, secondo l’espressione di Paolo VI nella Messa di mezzanotte del Natale 1975), la norma regolatrice delle loro relazioni; si sono lasciati mobilitare intorno a dei valori che, non essendo universali, (il partito, la razza, la potenza dello Stato), non potevano aiutare nel modo giusto la conciliazione dei beni comuni particolari. La ricerca del bene comune inteso in senso cristiano pone il consenso sulla pace e l’obbligo di costruirla al di sopra di tutti gli altri valori.

Bene comune e universalità
La concezione cristiana del bene comune si radica in quella della persona che vede in ogni uomo un essere particolare e, insieme, universale; particolare perché ha coscienza della sua dignità e dell’esistenza di una soglia al di là della quale essa viene offesa, anzi distrutta; universale, poiché egli si percepisce in quanto posto al centro di una rete di relazioni sia con la propria famiglia, che con gli altri uomini, il suo ambiente e alla fine Dio; aspirando, inoltre, a superare l’orizzonte della propria semplice individualità, egli comprende che il suo personale sviluppo dipende dalla parte che prenderà a quello di ognuna delle comunità alle quali egli appartiene.  Si trova quindi in ogni uomo, come in ogni comunità, quel dualismo che dipende dal dover arbitrare fra ciò che egli percepisce come suo bene particolare immediato e il beneficio che spera di trarne, sacrificandone una parte per poter crescere in umanità.

Padr Joseph Joblin, sj – (Cronache e Opinioni n. 11 pag. 49 - novembre 2010)

LA SUSSIDIARIETA’

Si parla molto, oggi, nell’attuale periodo di grave crisi, di “sussidiarietà”, nei diversi ambienti, economico, politico, sociale e culturale, quasi fosse una “parola magica”, in qualche modo risolutiva. E ciò non sempre a proposito.
È sembrato, quindi, importante “fare chiarezza” approfondendo, sul piano della dottrina, tale “principio di sussidiarietà”, “uno dei pilastri dell’insegnamento della Chiesa in materia sociale” (Joblin), considerato che, nella prassi, la nostra Associazione frequentemente lo pratica, in modo particolarmente evidente attraverso i suoi numerosi servizi.

Alba Dini Martino 

La Chiesa ha sempre insegnato che “non è giusto… che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato” (Rerum novarum,28). È stato Pio XI a trarre da questa affermazione una regola generale, chiamata “principio di sussidiarietà”, che vale per i rapporti fra le organizzazioni sociali e gli individui; regola che troviamo formulata nella Quadragesimo anno: “… siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società…”, (QA,80). Questa dottrina è stata riaffermata numerose volte e costituisce uno dei pilastri dell’insegnamento della Chiesa in materia sociale, (Pio  XII, All. Ai nuovi cardinali, 20 febbraio 1946; Giovanni XXIII, Pacem in terris,141, Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes,75, Giovanni Paolo II, Centesimus annus,45), e ha dato luogo alla nozione di “partecipazione organica” degli attori sociali nelle decisioni che li riguardano (Paolo VI, All. Alla Conferenza internazionale del Lavoro, 10 giugno 1959).

L’insegnamento della Chiesa sulla sussidiarietà è legato alla sua antropologia e alla maniera secondo cui essa considera la presenza dell’essere umano nella società; permette di comprendere le ragioni della sua opposizione radicale ad ogni forma di totalitarismo: di fronte ad uno Stato o ad una autorità sovranazionale che dichiarasse di essere in grado di discernere al meglio quale sia il bene comune di una società e quindi di pretendere di decidere da sola la misura secondo cui riconoscere, o meno, a ciascuno i suoi diritti personali, la Chiesa afferma che esistono per ogni individuo dei diritti assoluti, che non possono essere negati in alcuna circostanza, neanche per ciò che “potrebbe apparire essere apparentemente un bene” (Pio XII). Questa posizione è talvolta giudicata troppo rigorosa e le viene rimproverato di non tenere in conto l’esistenza di circostanze eccezionali che dovrebbero permettere di ammorbidirla. Ma, in realtà, essa non ha niente di strano; si ritrova nei documenti delle Nazioni Unite che si collegano ai diritti dell’uomo. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, per esempio, all’Art. 4, dichiara che “in caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci l’esistenza della nazione” “nessuna deroga” può essere autorizzata al riconoscimento di alcuni diritti, in particolare per ciò che concerne quelli che si riferiscono al diritto alla vita o alla libertà di pensiero, di parola o di religione. Il senso comune percepisce dunque che ogni essere umano ha un valore superiore a quello della società  e che è titolare di diritti che assicurano il rispetto della sua dignità; mentre, tuttavia, le Dichiarazioni delle Nazioni Unite lasciano a un consenso, spesso instabile, la cura di fissare, in un momento dato, quale contenuto ad essi assegnare, il cristianesimo richiama all’”ordine assoluto dei valori” che per nessuna ragione può essere violato, (Pio XII, All. Al Patriziato romano, 8 gennaio 1947). Questo insegnamento della Chiesa trae la sua forza dalla rivelazione contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento che ci chiede di credere in Dio creatore e in Gesù Cristo venuto ad instaurare la “civiltà dell’amore”.

La pratica della sussidiarietà 
La messa in opera del principio di sussidiarietà fa appello alla volontà dei partners sociali di risolvere le tensioni sociali nella verità e nella giustizia. Ogni forma di vita sociale e politica deve avere come scopo quello di assicurare una pace durevole, sia in seno alle famiglie che alle comunità più ampie, che si tratti dello Stato o della società mondiale. Se i governanti hanno il dovere di prendere quelle misure che assicurano “il progresso materiale e lo sviluppo spirituale” di coloro dei quali sono responsabili e di vegliare affinché gli operatori economici non privino i più deboli dei mezzi richiesti per “crescere in umanità” (Populorum progressio), il loro diritto di intervento è limitato per evitare che, con il pretesto di assicurare il bene di tutti, assegnino una tale priorità allo sviluppo economico da arrivare a  restringere la vita intellettuale o religiosa degli individui e delle comunità, fino al punto di privarli  della possibilità di partecipare alla definizione delle politiche di sviluppo.

Così, il principio di sussidiarietà chiarisce come comportarsi in mezzo alle trasformazioni che oggi le nostre società conoscono; queste chiedono, nello stesso tempo, più Stato per il fatto che il mondo è diventato un villaggio (Peccei), ma anche, più iniziativa responsabile da parte degli individui, perché il più gran numero possibile di essi sia associato alla nascita di un mondo nuovo. Da ciò, i due concetti che completano l’insegnamento sociale della Chiesa in questo contesto, quelli di persona e di  solidarietà..

Padre Joseph Joblin,  sj - (Cronache e Opinioni n. 12 pag. 47 dicembre 2010)

martedì 2 ottobre 2012

DESTINAZIONE UNIVERSALE DEI BENI. Il cristiano di fronte alla crisi mondiale


Popolazioni intere, sia nei paesi sviluppati, come in quelli in via di sviluppo sono privi dei beni necessari per la loro vita materiale e per il loro sviluppo spirituale a causa della ineguale distribuzione della ricchezza. Le statistiche parlano di tre miliardi di esseri umani che vivono con due dollari al giorno e di un milione con meno di un dollaro; esse anche parlano del fatto che più della metà dell’umanità non dispone che di una parte infima delle risorse della terra. La povertà non risparmia neanche le popolazioni dell’Europa e dell’America del nord, come possiamo testimoniare. Queste cifre indicano degli ordini di grandezza che, a loro volta, indicano che qualcosa non va nell’organizzazione mondiale. Giovanni XXIII ha fatto, del resto, di questo squilibrio il tema della sua enciclica Mater et Magistra (1961); da parte sua, Giovanni Paolo II, per dimostrare che i beni della terra devono essere a disposizione di tutti, ha affermato che essi sono gravati da una “ipoteca sociale” (Sollicitudo Rei Socialis,42), precisando così una dottrina formulata ancora una volta dal Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes: “ Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli”, (GS,69.1).
È dunque necessario riflettere e domandarci quale può essere la responsabilità di un cristiano nella società attuale, particolarmente tormentata. In effetti è da molti anni che assistiamo a delle crisi a ripetizione, nelle quali vediamo persino banche di Stato dichiararsi prossime al fallimento, minacciando così la possibilità di esistenza dei più poveri …
L’epicentro dell’attuale tsunami finanziario si trova in Grecia. Non facciamo di questo paese il capro espiatorio. La politica finanziaria di questo paese ha senza dubbio la sua parte di responsabilità nella crisi finanziaria attuale, ma questa non ha fatto che aggravare una situazione viziosa in se stessa; essa ha, fra le altre cause, come origine, i due dogmi che falsano l’equità nelle relazioni economiche mondiali, e cioè il liberalismo ad oltranza e la viabilità di un sistema economico nel quale si permette una illimitata creazione di moneta.
Un accordo fra le grandi Potenze economiche, chiamato “Consenso di Washington” (1989), ha voluto fare della libertà del commercio, dei beni e dei servizi la regola delle relazioni fra Stati; essa sottomette il mondo alla legge del profitto e ha una grande parte di responsabilità nell’estensione della povertà e della disoccupazione. Assistiamo, fra l’altro, alla fusione di imprese, alle delocalizzazioni, all’importazione massiccia di beni prodotti da popolazioni ridotte a condizioni di lavoro indegne dell’uomo o da bambini. Questo tipo di sviluppo ha ugualmente per conseguenza quella di privare del loro lavoro i produttori tradizionali; l’esempio dei coltivatori di cotone è qui significativo; la loro produzione trova difficoltà ad essere venduta sul mercato mondiale in concorrenza con quella delle grandi aziende moderne che producono maggiori quantità a minor costo. Allora il piccolo produttore di cotone, privo di mezzi di sostentamento, si sposta verso la città e va ad ingrossare il flusso dei candidati alla migrazione.
Il disordine iniziale provocato dalla mancanza di regole è esso stesso mantenuto dal lassismo con il quale gli Stati gestiscono le loro finanze. Il buon senso ci dice che nessuno può indebitarsi al di là di una certa percentuale delle proprie disponibilità. Questa regola vale sia per i singoli individui che per gli Stati. Ora, esiste uno Stato al quale il suo peso economico permette di indebitarsi senza preoccuparsi di mantenere una percentuale ragionevole nelle sue riserve. I prestiti che contrae con altri Stati o con delle banche vengono allora reinvestiti per trarne profitto e così la creazione di moneta si rinnova incessantemente e prepara dei vicoli ciechi, che chiamiamo crisi.
I meccanismi sopra descritti, in modo estremamente semplificato, ci permettono di capire che ognuno di noi è, nello stesso tempo, attore e vittima nella crisi presente. Lo sviluppo dei servizi pubblici, l’uso quotidiano del giornale, della radio, della televisione o dei portatili e dei trasporti aerei, ma anche di un gran numero di prodotti di uso corrente, (come le lampadine elettriche, per esempio), nei quali entrano ciò che chiamiamo “materiali rari”, prodotti soltanto in alcuni paesi…, altrettanti esempi mostrano che lo sviluppo delle relazioni economiche internazionali costituiscono un bene e che nessuno vorrebbe tornare indietro; ma questo sviluppo deve essere ordinato tecnicamente e spiritualmente. Tecnicamente, un freno deve essere posto alla liberalizzazione sistematica del commercio e della finanza internazionale che favoriscono i forti e schiacciano i deboli; uomini di Stato ed economisti propongono delle misure, come la tassa sulle transazioni puramente finanziarie, per renderle meno attraenti, oppure come la costituzione di zone di scambi omogenei, (Allais, premio Nobel per l’Economia); ma bisogna dirci che tutte queste misure tecniche avranno un autentico effetto se ognuno di noi si convince che la regola dei rapporti economici fra individui e  nazioni non deve continuare a consistere  nella ricerca del massimo profitto, ma nel soddisfacimento del diritto di ogni essere umano a vivere  nella dignità e nella possibilità di “essere di più”, crescendo in umanità. La pace dipende dal perseguimento di questo tipo di sviluppo; come già ci diceva Paolo VI nel 1967 con l’enciclica Populorum Progressio : lo sviluppo è il nuovo nome della pace.
Questa convinzione deve tradursi in pratica, non solo da parte di coloro che hanno responsabilità sindacali o politiche, ma anche da parte di tutti, nella vita quotidiana, familiare o professionale. L’esercizio della responsabilità o della autorità hanno per scopo il progresso materiale e lo sviluppo spirituale di coloro che ci circondano e che richiedono, da parte di ognuno, un atteggiamento di responsabilità sociale. Soltanto quando i cristiani e gli uomini e le donne di buona volontà, avranno ricomposto nel mondo il tessuto sociale, gli uomini politici avranno il sostegno necessario per compiere quelle riforme che vanno a beneficio di tutti.

Padre Joseph Joblin, sj  – (Cronache e Opinioni n. 12 pag. 39 - Dicembre 2011)

La Chiesa nella vita delle società: rottura e continuità


Proponiamo, anche questo mese, un testo tutto da meditare, in prospettiva associativa.
Mi limiterò a richiamare l’attenzione su alcuni passaggi, da tradursi in scelte di immediata attuazione, essenziali per la vita della nostra Associazione, in particolare nel momento storico che sta attraversando: “il cristianesimo … si presenta come fattore di unità … invitando a rivedere le proprie certezze, in funzione di un fine comune a tutti e di ordine diverso. È sforzandosi di non pensare e di non comportarsi in tutto come il mondo che li circonda, che i cristiani contribuiscono a ispirare in esso una volontà di pace, fondata sulla giustizia, non degli uomini, ma di Dio”. 
Il secolo scorso è stato caratterizzato da un contrasto che colpisce fra i ruoli riconosciuti alla Chiesa sul piano internazionale. Mentre nel 1915, la Francia, la Gran-Bretagna e la Russia si impegnavano, su domanda dell’Italia, ad escludere la Santa Sede dai futuri negoziati di pace, per ottenere la sua entrata in guerra, Paolo VI fu pregato nel 1965 di rivolgersi ai delegati delle Nazioni Unite, riuniti in assemblea generale (4 ottobre 1965). Tale contrasto è confermato se si considera il numero degli Stati accreditati presso la Santa Sede: è passato da 9 nel 1873 a 14 nel 1914; oggi è più di 170.
È a partire da una tale constatazione che dobbiamo riflettere, se vogliamo comprendere qual è il posto della Chiesa nella società e, in particolare, nella vita internazionale.

Alba Dini Martino

Le relazioni all’interno delle nazioni, come fra gli Stati, si sono sempre svolte fra cooperazione e contrapposizione. Ma come ha proclamato Giovanni Paolo II: la guerra è indegna dell’uomo. I popoli prendono sempre più coscienza di tale esigenza etica; come anche si possono osservare forme di cooperazione sempre più raffinate, sia fra i movimenti sociali all’interno degli Stati, che fra questi. Innanzi tutto  è venuta l’idea di creare organismi di cooperazione o meglio di  interesse comune;  questo fu il caso, dal XIX secolo, del riconoscimento dell’importanza dei movimenti sociali da parte delle autorità politiche; è ugualmente in questa epoca che furono create, tra le altre, l’Unione postale universale per facilitare la circolazione della posta, o una commissione fra gli abitanti delle rive del Danubio allo scopo di regolare la navigazione. Ma oggi la costruzione della pace esige, a seguito della diffusione dell’ideale democratico, una cooperazione più attiva, fondata sul consenso delle popolazioni. Ma quale ne sarà il fondamento? I creatori della Società delle Nazioni pensarono che i popoli divenuti ragionevoli, in seguito alla grande catastrofe della guerra del 1914, avrebbero accettato spontaneamente di piegarsi alle esigenze della giustizia sulla quale fondare la pace. La stessa cosa avvenne nel 1945 nel momento della creazione delle Nazioni Unite e più tardi in quello dell’adozione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Per la Chiesa un’idea della giustizia fondata sulla sola considerazione della ragione non può costruire la pace, perché ogni popolo ha un’idea diversa di ciò che essa richiede. Pio XII ha magnificamente sintetizzato tale differenza di punti di vista in un discorso all’Ambasciatore dell’Ecuador nel 1948:

Manca, disse, la coscienza di una norma riconosciuta da tutti, moralmente obbligatoria e, a causa di ciò, inviolabile la cui applicazione ai problemi concreti della pace fermi e paralizzi quell’esuberanza di interessi egoistici, particolari e quei desideri disordinati di potere.
Là dove la fede in Dio e la convinzione di non potersi mai sottrarre alle norme della sua legge, conservano ancora una forza sufficiente per potersi irradiare dalla coscienza degli individui all’ambito della vita pubblica, la divergenza delle opinioni contrarie può dissolversi in un’atmosfera moralmente seria e di reciproca lealtà  …
I trattati di pace nei quali si è dimenticato o consapevolmente negato il rispetto delle leggi non scritte del pensiero e dell’azione morali, si vedono privati di quella forza interiore obbligatoria, la prima di tutte le premesse per ottenere la loro desiderabile vitalità.

I testi citati mettono in luce la fondamentale divergenza di vedute che esiste fra la Chiesa e il mondo contemporaneo: il quale rifiuta di organizzarsi in virtù di una norma superiore, comune a tutti, dato che una larga parte, maggioritaria, contesta la possibilità di una sua formulazione accettabile per tutti e altri la stessa sua esistenza; e tuttavia la quasi totalità degli Stati ha una rappresentanza diplomatica presso la Santa Sede. La ragione risiede nel fatto che la sua presenza non è vista come facente parte del numero delle altre entità statali; essa è riconosciuta come effettiva, ma di una natura speciale, sui generis; l’autorità morale che le è riconosciuta costituisce infatti un elemento di equilibrio nelle relazioni internazionali. La consapevolezza che un destino comune obblighi i popoli e gli Stati a conciliare i propri interessi immediati con il bene comune di tutti, si esprime in seno a due istanze: l’una è costituita dalle Istituzioni internazionali che, allo stato attuale delle cose, non si vedono riconosciuta l’autorità necessaria per prendere le misure necessarie per il fatto che i governi, individualmente o in gruppo, tendono a far prevalere i loro interessi particolari e immediati; l’altra è precisamente la Chiesa la cui imparzialità è riconosciuta, come pure la sua volontà di mantenere i popoli uniti.

Così due grandi forze a carattere universale hanno per vocazione di assicurare la pace fra i diversi movimenti sociali o fra le nazioni. Il cristianesimo si inserisce secondo la prospettiva che gli è propria. Religione a vocazione universale, il cristianesimo introduce, nelle relazioni fra le società, un elemento nuovo. Affermando di non essere legato ad alcun gruppo particolare, a causa della sua vocazione ad essere presente in ciascuno di essi, allo scopo di lavorare a favore della loro cooperazione, si presenta come fattore di unità invitando incessantemente i membri di ogni società a rivedere le proprie certezze, in funzione di un fine comune a tutti e di ordine diverso.
È sforzandosi di non pensare e di non comportarsi in tutto come il mondo che li circonda, che i cristiani contribuiscono a ispirare in esso una volontà di pace, fondata sulla giustizia, non degli uomini, ma di Dio. 

Padre Joseph Joblin sj – (Cronache e Opinioni N. 4 - pag. 45)