etica

"... Non vogliate negar l'esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza". (Dante, Inferno canto XXVI, 116-120).


martedì 22 dicembre 2015

LA MISERICORDIA IN DON LUIGI STURZO

LA MISERICORDIA IN DON LUIGI STURZO  

Innanzitutto vorrei ringraziare il Dr. Carlo Cittadino per avermi invitato a svolgere questa relazione e tutti i presenti che grazie all’interesse che dimostrano per questo argomento mi lasciano ben sperare riguardo ai frutti concreti che il Giubileo della Misericordia che si è appena aperto, porterà ai cuori della nostra gente.
Per iniziare vorrei subito dirvi che mentre preparavo questa relazione, mi rallegravo con me stesso di non essere uno studioso di Don Luigi Sturzo, né tanto meno un profondo conoscitore del suo pensiero, come lo sono gli altri eminenti relatori.
Infatti anche se può sembrare un paradosso, devo dire che mi sono rallegrato per il fatto che ho approcciato l’argomento esclusivamente come appassionato di un pensiero profetico nel suo tempo ed estremamente attuale per il nostro, ma che è talmente affascinante complesso e coinvolgente che se avessi dovuto presentarlo da studioso credo che non mi sarebbe bastato il poco tempo disponibile dedicato alla riflessione, né tanto meno il tempo di presentazione consentito in questa sede!   
Naturalmente in questo breve incontro parlerò dei punti più salienti trattati in questa relazione che lascio alla lettura attenta e critica di ciascuno.
INTRODUZIONE
Per ubicare i concetti in maniera chiara e comprensibile per ciascuno di noi, dirò subito che il percorso che cercherò di proporre, nella chiarificazione del nozione di misericordia in Don Sturzo che a mio avviso necessita di un salto di paradigma non semplice, si configura nel presente schema: una piccola  analisi introduttiva della mia visione sull’argomento, una richiesta di condividere alcune raffigurazioni importanti in cui si colloca il concetto di misericordia ed infine sull’interpretazione che di tale aspetto umano mi è sembrata più corrispondente alla reale prospettiva non solo pensata e disegnata da Don Sturzo, ma anche e soprattutto concretamente vissuta.
La metodologia che seguirò sarà quella a me tanto cara dello schema di Lonergan per la fondazione del sapere il cui percorso necessita di tre conversioni quali quella intellettuale rappresentata dai fatti e dalle esperienze, quella morale  della responsabilità e della ragionevolezza ed infine quella religiosa, come  visione della autoconsapevolezza storica e del dono dell’amore di dio consistente nell’amore dell’uomo verso tutte le cose e di conseguenza parlare della misericordia non solo come fine infra-valente, ma anche e soprattutto come il riconoscimento concreto del volto umano di Dio nella realtà dell’uomo.
ESAME DELLA NOZIONE DI MISERICORDIA
Purtroppo, come accade spesso nel nostro contesto quotidiano, usiamo le parole semplicemente come elemento di trasmissione del nostro pensiero sempre più in maniera superficiale. Ecco perché ritengo importante parlare in termini più specifici di come si costruisce il concetto di misericordia. Certo se usiamo il vocabolario dei sinonimi possiamo vedere che esso può essere sostituito e comparato ad altri concetti aventi significato di  compassione, comprensione, pietà, perdono, benignità, generosità, carità, umanità, riguardo, clemenza, ma io vorrei invece definire in maniera univoca e quindi scevra da sinonimi il concetto di misericordia che mentre tutti li contiene dall’altra non può essere barattato se non perdendo la pienezza del suo significato.
Per farlo in maniera coerente con il Magistero della Chiesa prenderò spunto dalla costituzione Pastorale Gaudium et Spese dall’enciclica di San Giovanni Paolo II “Dives Misericordia” del 1980
CONFIGURAZIONE DEL CONCETTO DI MISERICORDIA
La misericordia, alla stessa stregua della solidarietà è una virtù che l’uomo può esercitare soltanto attraverso la ricerca incessante del senso della propria umanità. In tale senso trova luogo la dimensione della propria dignità morale, quella che la Gaudium et Spes richiama con le parole “Infatti, nella sua interiorità, egli [l’essere umano] trascende l'universo delle cose: in quelle profondità egli torna, quando fa ritorno a se stesso, là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (15) là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino. Perciò, riconoscendo di avere un'anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da una creazione immaginaria che si spiegherebbe solamente mediante le condizioni fisiche e sociali, ma invece va a toccare in profondo la verità stessa delle cose.”
Il concetto di dignità allora presiede la natura della coscienza morale come la Costituzione Pastorale ci ricorda: “Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (17). La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità (18).” dando una precisa indicazione all’azione che l’uomo deve intraprendere per riconoscersi come tale. Questo percorso è dato da tre momenti distinti tra loro eppure intimamente integrati che possono essere rappresentati come tre cerchi concentrici in cui l’uno include e determina l'altro. Questi tre cerchi sono la giustizia, la carità e la misericordia. Così mentre la giustizia si integra e viene compresa nella carità, la carità definisce e completa la giustizia e a sua volta la carità viene definita e completata dalla misericordia.
Esattamente come la natura dell’atto umano distinguendosi su tre livelli: l’esperienziale, l’intellettuale  e quello del giudizio, fa si che l’atto esperienziale viene completato dalla comprensione e pertanto la comprensione presuppone,  include e completa l’esperienza, mentre il giudizio presuppone include e supera la comprensione.
Il percorso verso la misericordia dunque parte dall’azione pratica della giustizia per trasformarsi in un’azione di carità che determina l’ambito finale della misericordia.
Quest’ultima pertanto va caratterizzata come trasposizione dell’azione dell’amore divino nell’essere umano e non una semplice azione di compassione, di perdono o di semplice comprensione verso chi ha sbagliato.
Il percorso è difficile, è doloroso ed è edificante della natura dell’essere umano nella misura in cui egli scopre la dimensione della propria dignità che ha come obiettivo primario l’esercizio della virtù teologale più edificante che è la carità.
GIUSTIZIA, CARITA’ MISERICORDIA
Appare chiaro dunque come non vi possa essere spazio di misericordia laddove non ci sia una carità che completa la giustizia. Molti si trovano a parlare di misericordia senza comprendere che il senso della misericordia è il quadro composito delle altre due verità intime dell’uomo quale la giustizia e la carità. Se non si percepisce il senso della giustizia cioè di quell’equilibrio interiore che trova fondamento nei caratteri della giustizia sociale tripartita in giustizia legale, giustizia redistributiva e giustizia commutativa, non può configurarsi il tessuto di umanità che si fonda sull’uguaglianza, sulla fraternità e sulla libertà che seppur promossi in termini politici dalla rivoluzione del 1789, in realtà sono il fondamento primo della verità sull’uomo che la Chiesa ha sempre sostenuto.
GLI ASPETTI DELLA GIUSTIZIA
Il termine giustizia però non va interpretato soltanto come la semplice applicazione delle norme e del loro rispetto perché la giustizia costa sacrificio soprattutto se la si interpreta sotto il profilo del comandamento principe o regola doro della relazione umana “ama il prossimo tuo come te stesso”: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.”! La giustizia va interpretata anche come carità, come amore che non spiega le rinunce alla rivalsa, ma le vince in una piena accettazione dell’identità dell’altro, in una attitudine al sacrificio del proprio orgoglio modulato sulla certezza del proprio autocompiacimento e sulla intransigenza delle proprie vedute.  Questa  identificazione della giustizia spiana la strada verso il senso profondo e sconosciuto della misericordia perché “In tal modo, la misericordia viene, in certo senso, contrapposta alla giustizia divina e si rivela, in molti casi, non solo più potente di essa, ma anche più profonda. Già l'Antico Testamento insegna che, sebbene la giustizia sia autentica virtù nell'uomo, e in Dio significhi la perfezione trascendente, tuttavia l'amore è «più grande» di essa: è più grande nel senso che è primario e fondamentale. L'amore, per cosi dire, condiziona la giustizia e, in definitiva, la giustizia serve la carità. Il primato e la superiorità dell'amore nei riguardi della giustizia (ciò è caratteristico di tutta la rivelazione) si manifestano proprio attraverso la misericordia”  
PROGRESSIONE TRASCENDENTE VERSO LA MISERICORDIA
Questo lo possiamo comprendere solo se entriamo nella progressione fondamentale della trascendenza che partendo dall’umano, va verso l’atteggiamento cristiano per raggiungere quel livello di santità che la Chiesa non si stanca di professare attraverso l’insegnamento evangelico della parabola del “Figliol prodigo” in cui “Il rapporto della giustizia con l 'amore che si manifesta come misericordia viene con grande precisione inscritto nel contenuto della parabola evangelica. Diviene più palese che l'amore si trasforma in misericordia quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e spesso troppo stretta. Il figliol prodigo, consumate le sostanze ricevute dal padre, merita --dopo il ritorno-- di guadagnarsi da vivere lavorando nella casa paterna come mercenario, ed eventualmente, a poco a poco, di conseguire una certa provvista di beni materiali, forse però mai più nella quantità in cui li aveva sperperati. Tale sarebbe l'esigenza dell'ordine di giustizia, tanto più che quel figlio non soltanto aveva dissipato la parte del patrimonio spettantegli, ma inoltre aveva toccato sul vivo ed offeso il padre con la sua condotta. Questa, infatti, che a suo giudizio l'aveva privato della dignità filiale, non doveva essere indifferente al padre. Doveva farlo soffrire. Doveva anche, in qualche modo, coinvolgerlo. Eppure si trattava, in fìn dei conti, del proprio figlio, e tale rapporto non poteva essere né alienato né distrutto da nessun comportamento. Il figliol prodigo ne è consapevole, ed è appunto tale consapevolezza a mostrargli chiaramente la dignità perduta ed a fargli valutare rettamente il posto che ancora poteva spettargli nella casa del padre. In definitiva il figlio secondo giustizia aveva quanto si meritava, ma in termini di carità e quindi di amore del Padre riceve un’accoglienza gratificante sotto il profilo umano che poi diviene elemento edificante della relazione umana quando tramutandosi in misericordia vede gratuitamente e gioiosamente ripristinati i diritti filiali, senza che vi sia una spiegazione, senza alcuna risposta ai perché inquieti del figlio maggiore. 
Tale atteggiamento che supera i limiti della natura umana si ritrova anche nelle “parole del discorso della montagna: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia», [….]. Queste parole del discorso della montagna, facendo vedere nel punto di partenza le possibilità del «cuore umano» («essere misericordiosi»), non rivelano forse secondo la medesima prospettiva il profondo mistero di Dio: quella inscrutabile unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in cui l'amore, contenendo la giustizia, dà l'avvio alla misericordia, che a sua volta rivela la perfezione della giustizia?”
COME PORCI DI FRONTE A UN MECCANISMO DIFETTOSO
Ma allora in termini concreti come dobbiamo porci di fronte al fatto che esistano, non solo nel nostro Paese e nella nostra Unione Europea, ma anche “in varie parti del mondo, in vari sistemi socioeconomici, intere aree di miseria, di deficienza e di sottosviluppo. Tale fatto è universalmente noto. Lo stato di diseguaglianza tra uomini e popoli non soltanto perdura, ma aumenta. Avviene tuttora che accanto a coloro che sono agiati e vivono nell'abbondanza, esistono quelli che vivono nell'indigenza, soffrono la miseria e spesso addirittura muoiono di fame; e il loro numero raggiunge decine e centinaia di milioni. È per questo che l'inquietudine morale è destinata a divenire ancor più profonda. Evidentemente, un fondamentale difetto o piuttosto un complesso di difetti, anzi un meccanismo difettoso sta alla base dell'economia contemporanea e della civiltà materialistica, la quale non consente alla famiglia umana di staccarsi, direi, da situazioni cosi radicalmente ingiuste.”

I PROGRAMMI DI GIUSTIZIA
Purtroppo la voce giustizia a volte sembra aver completamente dimenticato il suo concetto primordiale per dare luogo ad interpretazioni completamente ribaltate nella realtà pratica e mentre da un lato si predica bene dall’altro purtroppo si razzola male infatti “sarebbe difficile non avvedersi che molto spesso i programmi che prendono avvio dall'idea di giustizia e che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini, dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni. Benché essi continuino a richiamarsi alla medesima idea di giustizia, tuttavia l'esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l'odio e perfino la crudeltà. In tal caso, la brama di annientare il nemico, di limitare la sua libertà, o addirittura di imporgli una dipendenza totale, diventa il motivo fondamentale dell'azione; e ciò contrasta con l'essenza della giustizia che, per sua natura, tende a stabilire l'eguaglianza e l'equiparazione tra le parti in conflitto. Questa specie di abuso dell'idea di giustizia e la pratica alterazione di essa attestano quanto l'azione umana possa allontanarsi dalla giustizia stessa, pur se venga intrapresa nel suo nome.
PRESUNZIONE DI GIUSTIZIA
Non a caso possiamo constatare come nel nostro vissuto quotidiano siamo portati e a volte incitati a considerare il concetto di giustizia nei termini sopra esposti e riportati dall’Enciclica la quale continuando il discorso sottolinea che “È ovvio infatti che in nome di una presunta giustizia (ad esempio storica o di classe) talvolta si annienta il prossimo, lo si uccide, si priva della libertà, si spoglia degli elementari diritti umani. L'esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all'annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni.
COME SI CONFIGURA LA MISERICORDIA
Ecco perché vorrei evidenziare ciò che rende peculiare il cammino, specificando attraverso le parole del Magistero come si configura  la Misericordia alla fine del percorso indicato, che dalla giustizia arriva alla carità per trasformarsi appunto in Misericordia:  “Non si tratta qui della perfezione dell'inscrutabile essenza di Dio nel mistero della divinità stessa, ma della perfezione e dell'attributo per cui l'uomo, nell'intima verità della sua esistenza, s'incontra particolarmente da vicino e particolarmente spesso con il Dio vivo. Ecco dunque come prende forma il carattere auto-fondante della via che porta e si conclude nella misericordia. Esso di trova nella “via che Cristo ci ha manifestato nel discorso della montagna con la beatitudine dei misericordiosi, [ che] è molto più ricca di ciò che a volte possiamo avvertire nei comuni giudizi umani sul tema della misericordia. Tali giudizi ritengono la misericordia come un atto o processo unilaterale, che presuppone e mantiene le distanze tra colui che usa misericordia e colui che ne viene gratificato, tra chi fa il bene e chi lo riceve. Da qui deriva la pretesa di liberare i rapporti interumani e sociali dalla misericordia e di basarli solamente sulla giustizia. Tuttavia, tali giudizi sulla misericordia non avvertono quel fondamentale legame tra la misericordia e la giustizia del quale parla tutta la tradizione biblica e soprattutto la missione messianica di Gesù Cristo. L'autentica misericordia è, per così dire, la fonte più profonda della giustizia. Se quest'ultima è di per sé idonea ad «arbitrare» tra gli uomini nella reciproca ripartizione dei beni oggettivi secondo l'equa misura, l'amore invece, e soltanto l'amore (anche quell'amore benigno, che chiamiamo «misericordia»), è capace di restituire l'uomo a se stesso.
EGUAGLIANZA 
A cesellare in maniera più fine questo discorso interviene una ulteriore affermazione del Magistero che possiamo considerare come preziosa cornice alla visione che ho tentato di comunicare e vale a dire che “ la misericordia autenticamente cristiana è pure, in certo senso, la più perfetta incarnazione dell'«eguaglianza» tra gli uomini, e quindi anche l'incarnazione più perfetta della giustizia, in quanto anche questa, nel suo ambito, mira allo stesso risultato. L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però in ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria. In pari tempo, l'«eguaglianza» degli uomini mediante l'amore «paziente e benigno» non cancella le differenze: colui che dona diventa più generoso quando si sente contemporaneamente gratificato da colui che accoglie il suo dono; viceversa, colui che sa ricevere il dono con la consapevolezza che anch'egli, accogliendolo, fa del bene, serve da parte sua alla grande causa della dignità della persona, e ciò contribuisce a unire gli uomini fra di loro in modo più profondo. Cosi dunque, la misericordia diviene elemento indispensabile per plasmare i mutui rapporti tra gli uomini, nello spirito del più profondo rispetto di ciò che è umano e della reciproca fratellanza. È impossibile ottenere questo vincolo tra gli uomini se si vogliono regolare i mutui rapporti unicamente con la misura della giustizia. Questa, in ogni sfera dei rapporti interumani, deve subire, per così dire, una notevole «correzione» da parte di quell'amore il quale --come proclama san Paolo-- «è paziente» e «benigno» o, in altre parole, porta in sé i caratteri dell'amore misericordioso tanto essenziali per il Vangelo e per il cristianesimo.”
INTERROGATIVI ESISTENZIALI
Il problema fondamentale resta comunque quello della difficoltà di comprendere quale sia la maniera più consona per attualizzare questa eguaglianza in termini concreti e storici, come effettuare questa correzione della giustizia percepita in termini prettamente umani e legulei.  Come fa l’uomo contemporaneo a raggiungere la pienezza della misericordia soprattutto nei rapporti socio-politico-economici, quando quell’egoismo di cui è permeata tutta la sua vita ed ogni propria azione lo porta a schermare i suoi atteggiamenti dietro strutture di legge che dietro la facciata di rispetto dei diritti nascondono la provenienza da volontà politiche ben precise che ne rendono difficile barattare il contenuto di convenienza e tornaconto, con quello più profondo ed umano della misericordia. “L'uomo contemporaneo sente queste minacce. Ciò che a tale riguardo è stato detto sopra è soltanto un semplice abbozzo. L'uomo contemporaneo si interroga spesso, con profonda ansia, circa la soluzione delle terribili tensioni che si sono accumulate sul mondo e si intrecciano in mezzo agli uomini. E se talvolta non ha il coraggio di pronunciare la parola «misericordia», oppure nella sua coscienza, priva di contenuto religioso, non ne trova l'equivalente, tanto più bisogna che la Chiesa pronunci questa parola, non soltanto in nome proprio, ma anche in nome di tutti gli uomini contemporanei.”
COME INTERPRETA LA MISERICORDIA DON STURZO
Eccoci giunti al clou del nostro tragitto. Anche se per qualcuno le precedenti riflessioni possono essere sembrate complesse e ridondanti nella volontà di ricercare il nucleo fondante della Misericordia, ebbene io credo che esse siano state funzionali per introdurre la maniera più corrispondente con cui Don Sturzo a mio avviso interpreta il concetto di Misericordia.
MISERICORDIA NELLA DSC
Credo che ormai tutti possiamo concordare sul fatto che egli sia stato un fautore quasi esclusivo della necessità di adottare i principi della dottrina sociale della chiesa. Infatti come si può constatare nei suoi discorsi egli non fa riferimento alla misericordia, come concetto a se stante e autonomamente definito, esattamente come le encicliche nelle quali la parola misericordia non si trova manifestamente riportata che al punto 19 delle Rerum Novarum e al punto 107 della Mater et Magistra del 1961 come citazione però della R.N.; al punto 12 della Octogesima Adveniens nel 1971; al punto 37 della Sollicitudo Rei Socialis nel 1987; al punto 37 della Spe Salvi nel 2007, dove viene riportata per tre volte la frase “eterna è la sua misericordia” citando l’apostolo Paolo; nella Caritas in Veritate di benedetto XVI nel 2009, la parola Misericordia viene riportata due volte la prima al punto 6 e la seconda al punto 79;mentre nella esortazione di Evangelii Gaudium di Papa Francesco nel 2013 trova 32 ricorrenze nei diversi punti; infine nella Laudato si’ del 2015 la parola misericordia ricorre una sola volta al punto 77. Non così invece è per le parole giustizia e carità che dalla Rerum Novarum alla Mater et Magistra trovano ricorrenze molto più consistenti .
Ma torniamo al nostro discorso sulla misericordia in Don Sturzo che pur se non esternata esplicitamente trova il suo compimento proprio nell’urgenza verso la giustizia permeata però dalla carità che hanno permesso al Prete di Caltagirone di raggiungere quei traguardi di umanità feconda che soltanto una visione compiuta di misericordia avrebbe potuto permettere.
BEATI I MISERICORDIOSI
La bellissima frase con cui si apre il sipario di questo convegno: “Beati i misericordiosi, perché essi troveranno misericordia. La giustizia non basta; è necessaria anche la misericordia nelle nostre relazioni con gli altri, proprio come noi domandiamo sempre misericordia a Dio per i nostri peccati”. “Come si potrebbe vivere nel mondo sotto il rigore della giustizia se non esistessero anche misericordia, compassione, pietà, clemenza?”, si domandava Sturzo.” manifesta l’urgenza di trovare una motivazione “altra” che potesse andare “oltre” l’idea della giustizia e questa ovviamente era rappresentata dal punto più elevato della carità che si concretizza nella misericordia.
COME OPERA LA MISERICORDIA
Ma per capire da dove scaturisce il senso di misericordia di Don Sturzo, si deve ripercorrere il suo cammino alla ricerca della giustizia nel segno della democrazia e dell’attenzione verso le classi più povere e disagiate. Questa misericordia lo fa diventare un paladino della democrazia, dell’uguaglianza e del riscatto delle classi più povere. Ma non gli basta però il solo riconoscimento di giustizia, perché nell’esercizio profondo di una carità specificamente umana il cui limite si confonde con l’urgenza del bene comune misurato dalla condizione del più debole ed emarginato, tenta indefessamente di promuovere un sentimento nuovo che non sia di semplice commiserazione, bensì di riconoscimento delle libertà e dei diritti inalienabili di ogni essere umano.
AUTENTICO SOSTENITORE DELLA DIGNITÀ DELL’ESSERE UMANO
Ecco perché egli pur essendo reputato liberista, in realtà non lo era, così come il regime che lo reputava comunista, bolscevico e sinistro non aveva capito che lo spirito di solidarietà e di misericordia che informava il suo senso della giustizia era guidato da una visione della carità che soltanto un animo sensibile e profondamente innamorato dei principi cristiani poteva manifestare. Tale sentimento si configura nella misericordia e rifiuta qualsiasi epiteto che non sia quello di autentico sostenitore della dignità dell’essere umano. Per lui infatti “il popolarismo è democratico, ma differisce dalla democrazia liberale perché nega il sistema individualista ed accentratore dello stato e vuole lo stato organico e decentrato; è liberale (nel senso sano della parola) perché si basa sulle libertà civili e politiche, che afferma uguali per tutti, senza monopoli di partito e senza persecuzioni di religione, di razza, di classe; è sociale nel senso di una riforma a fondo del regime capitalista attuale, ma si distacca dal socialismo perché ammette la proprietà privata, pur rivendicandone la funzione sociale; afferma il carattere cristiano, perché non vi può oggi essere etica e civiltà che non sia cristiana”
VISIONE CRISTIANA SOCIALE E DEMOCRATICA
In tale ottica che vedeva nella elaborazione teorica del popolarismo un fondamento del pensiero cattolico liberale si venivano ad integrare le visioni cristiano-sociale e democratico-cristiane che hanno fortemente segnato la presenza cattolica nella vita pubblica a cavallo dei due secoli passati e che lo stesso Luigi Sturzo ne ha definito la fisionomia politico culturale precisando che il popolarismo  trova nel campo della economia la sua base teorica riveniente dalla scuola cristiano-sociale che però si contrappone nello stesso tempo all’atomismo liberale da un lato ed al collettivismo socialista dall’altro, reputando come elementi necessari del popolarismo il regime costituzionale rappresentativo e le libertà civili e politiche. 
IL CONCETTO DI DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
In questo quadro di pensiero tuttavia egli trova delle incongruenze inaccettabili in termini di rappresentanza, tanto che in uno dei suoi scritti più importanti esterna in maniera accorata la sua preoccupazione sulla inefficienza del sistema dei partiti in relazione alla formazione dei governi, soprattutto riguardo ai loro interessi e non certo a quelli delle classi più povere, sottolinea infatti che “Le fasi della crisi siciliana hanno dato occasione ad affermazioni addirittura incredibili sull'ingerenza direttiva e ordinativa dei partito nella formazione del Governo regionale. Mai, prima di oggi, era comparsa la direzione del partito in simili fasi politiche, assumendo responsabilità e impegni che né lo statuto del partito prevede, né la posizione di un'assemblea eletta dal popolo e un governo che rappresenta l'intera regione potrebbero tollerare. Si tratta di limiti invalicabili fra partito e governo, fra partito e parlamento, fra partito e amministrazioni pubbliche, fra partito ed enti statali, parastatali e simili. Non può concepirsi una pubblica amministrazione come l'opera dei pupi, dove ci siano i paladini che combattono contro i saraceni tenuti e tirati con i fili da sopra le quinte; e neppure come un convitto di corrigendi, messi in fila o messi in castigo dai prefettini, secondo gli ordini di un direttore.”
LIBERTÀ E AUTOLIMITAZIONE
Continuando nel proprio discorso di libertà ed autolimitazione egli non può fare a meno di rilevare l’assenza di giustizia e di attenzione ai diritti dei cittadini ad opera dei partiti e dei loro dirigenti dicendo che “Naturalmente, dietro i partiti, tutti i partiti, ci sono gruppi di spinta e interessi personali. Ve ne sono anche dietro i governi, tutti i governi, ma con la differenza che il governo è un potere responsabile, e risponde al Paese e risponde anzitutto al parlamento; il partito è un potere non responsabile; non risponde nemmeno agli elettori che gli danno il voto, né ai sostenitori che gli danno i mezzi: un partito, per definizione, non ha mezzi propri. E allora? C'è il rimedio: il dirigente del partito, (di tutti i partiti, nessuno escluso) godendo della libertà democratica la più illimitata, al punto da potere sfiorare il codice, deve sapersi autolimitare. L'autolimitazione è la contropartita della libertà illimitata. L’autolimitazione in regime di libertà è la regola generale per tutti gli organi della vita pubblica e per tutte le associazioni private che si occupano di pubbliche attività. Che dire se il parlamento invade i poteri dell'amministrazione attiva? E se il governo invade il parlamento? Se la magistratura si sente superiore alla legge o se il parlamento rende inoperanti le sentenze del magistrato? Se il capo dello Stato tende a sostituire il governo o se il governo tende a ingerirsi nelle funzioni del capo dello Stato? Quale Babilonia! Ma questi sarebbero peccadillos in confronto alla mancanza di senso di limite dei partiti al punto da qualificare come delegazione la partecipazione ai governi di "coalizione".
CREDITO E BANCHE
 Un altro passo caratterizzante del suo pensiero che lascia trasparire il senso profondo della misericordia si può intravvedere quando parla della condizione del credito dicendo che  “Le banche sono in grandissima parte enti statizzati o addirittura statali o con partecipazione statale e per giunta, agli effetti dei tassi attivi e passivi, legati a un cartello politicamente imposto. Conseguenza: alto costo del denaro anche quando la liquidità bancaria sia arrivata come oggi a un livello preoccupante. Certi giornali filo Dc hanno accusato gli industriali di lasciare giacere il denaro invece di prendere iniziative produttive; è facile fare della demagogia, quando fin oggi la politica italiana filosocialista ha scoraggiato l'iniziativa privata. Non ripeto quello che scrissi nel mio articolo «Ridare fiducia». Vi è rapporto obbligato tra fiducia nell'avvenire e maggiore iniziativa; tra libertà economica e maggiore iniziativa; tra fiscalità e maggiore iniziativa; certe regole non possono essere violate impunemente.”
ATTUAZIONE PRATICA DELLA MISERICORDIA
In ragione della sua visione eticamente impostata sulla coscienza della giustizia nella strutturazione di relazioni umane informate da una carità misericordiosa egli non si rifiuta di accettare l’esilio, la contestazione dei suoi superiori gerarchici, né le intriganti posizioni dei suoi compagni di partito pur di mantenere aperta la porta del dialogo mirato al riequilibrio dei poteri in favore delle classi più povere. Non per niente egli combatte in maniera determinata e senza nascondersi dietro il suo status di prete, tutte quelle che ritiene essere le nefandezze di un sistema politico formato da concussione, corruzione e violenza gratuita. Egli combatte ma non porta rancore, perché il rancore è il vuoto dell’anima dove non ha posto la misericordia, ma soltanto il risentimento di ciò che rimanendo incompiuto in termini di orgoglio umano, continua a bruciare come fuoco rovente ogni angolo della propria esistenza. Forse è stata proprio questa la caratteristica recondita che lo ha guidato nelle sue molte battaglie. Il suo atteggiamento di misericordia lo ha sempre portato, anche nei conflitti più aspri a distinguere il peccato dal peccatore e questo per chi si occupa di politica sappiamo che è estremamente difficile. Egli conosceva profondamente la natura dei partiti in quanto nella sua visione essi si distinguono in maniera netta dalla nobiltà dell’azione politica che è di elevato spessore etico, perché essendo di parte non possono che guardare ai propri interessi e a quelli dei loro adepti ecco perché in un suo discorso egli spiega che "E' superfluo dire perché NON ci siamo chiamati "partito cattolico": i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall'inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, e abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione".)
RELAZIONE STATO, CITTADINO, SOCIETA’ IMPRESA
Ecco perché essendo convinto dell’azione edificante originata dalla relazione tra stato e cittadino, fra cittadino e società e tra iniziativa privata e sussidiarietà, in funzione di quella che potremmo giustamente chiamare come visione dello “sviluppo integrale dell’uomo” egli si scaglia con forte determinazione contro  “l’idea di uno Stato-tutto” contro il fatto che “nessuno ha più ritegno di invocare provvedimenti e interventi statali per la più insignificante iniziativa". Contro i “commissari governativi-antifascisti al posto dei fascisti - ma sempre commissari - arbitri di enti statali parastatali, soprastatali... tutti con tanto di marchio di fabbrica: lo Stato".” Contro "le amministrazioni autonome” degli enti; contro “ i ministri [perché] sono oppressi da affari personali (sì da aver poco tempo per quelli pubblici), perché tutto il mondo vuole un piccolo o grande commissariato, un posto nei gabinetti o nei sottoscala, ma un posto in qualcuno dei tanti uffici dipendenti dallo Stato, perché tutto il mondo italiano vuole dipendere dallo Stato". Contro “un progetto monstre per trasformare un servizio occasionale che dovrebbe finire presto, in un ministero permanente, che abbia sotto di sé sanità, assistenza sociale, assicurazioni e chi più ne ha più ne metta, sì da statizzare completamente i servizi assistenziali". Contro quello che ancora oggi rende il suo pensiero e questa sua contrarietà di estrema attualità nel denunciare che "Altra statizzazione che si medita è quella dell'assistenza emigratoriale; altri controlli che si preparano sono diretti ad asservire le cooperative; fascismo, fascismo puro; statalismo soffocante, rosso invece che nero; ma statalismo. Tutto ciò non disturba i sonni dell'italiano medio, che sarebbe felice se lo Stato potesse togliergli le preoccupazioni della vita. Il fascismo passò allo Stato i segretari comunali; chi ha il coraggio oggi di farli rientrare nei ranghi propri? Lo Stato si prese tutti i maestri elementari, creando un accentramento invero simile e un grattacapo al ministero dell'istruzione, senza precedenti. Oggi nessun deputato azzarderebbe la proposta di far ritornare i maestri ai Comuni. Perderebbe la medaglietta; avrebbe le ire anche dei maestri cattolici che per non sembrare da meno dei loro colleghi, vogliono mantenere le "conquiste della classe". perché "L'essere statale è una conquista di classe, perché lo Stato paga e i Comuni non pagavano; lo Stato classifica, sposta, decide ex cathedra; il Comune no, non poteva, perché viveva e vive la vita grama dei poveri, sottoposto anch'esso a una insopportabile ingerenza statale, che ne impedisce lo sviluppo e l'attività. E dire che siamo nel Paese delle "cento città", della vita municipale piena di grandezze e di ricordi, i cui monumenti "comunali" hanno l'impronta del genio, mentre quelli dello Stato burocratizzato hanno l'impronta della mediocrità e della insipienza".
CONCLUSIONI
Si potrebbe continuare a lungo data l’attualità del suo pensiero che oggi a più di 50 anni dalla sua morte ritorna costantemente nelle realtà quotidiane che i mass media ci raccontano riguardo alla burocrazia, ai partiti alle banche agli immigrati, alle cooperative ecc. ma non essendo questa la sede anche se il discorso è appassionante, io terminerei questa ricerca della visione di misericordia in don Sturzo per me razionalmente strutturata in termini umani e spirituali che egli ha saputo coltivare sviluppare e trasmettere non solo ai suoi contemporanei ma anche a noi che ne seguiamo le orme  con un confronto con il vangelo di Luca 3, 10-18 laddove Giovanni il Battista  traccia chiaramente il percorso di giustizia, carità e misericordia che ho tentato anche io di tratteggiare sin dall’inizio di questa relazione  e che certamente Don Sturzo ha esercitato e sperimentato durante tutti gli anni della sua missione terrena, vale a dire  che alle folle l’esortazione di Giovanni era “chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto” quale ripristino del fondamento di giustizia commutativa perduto. Ai pubblicani ammonisce “non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato” per essere ricondotti, senza necessità di ricorrere al rispetto di un parametro di giustizia ad una discrezionalità positiva, in un ambito di relazione umana che si ricostituisce sulla volontà di riscoprire quel sentimento di carità che alberga nel cuore degli uomini. Infine ai soldati dà un consiglio che supera e ingloba le sue precedenti risposte: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe”. 


BIBLIOGRAFIA
(DA WIKIPEDIA ULTIMO ACCESSO 15/12/2015)
  • Luigi Sturzo, Opera omnia, edizione in formato digitale: [1]
  • Luigi Sturzo, Mario Sturzo, Carteggio, a cura di Gabriele De Rosa, 4 volumi + 1 fascicolo di Indici 1926-1940, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Roma, Istituto Luigi Sturzo, 1985
  • Luigi Sturzo, Battaglie per la libertà : 1952-1959, 2 volumi, Palermo, Ila Palma, 1992. ISBN 8877041676.
  • Luigi Sturzo, Lettere non spedite, a cura e con introduzione di Gabriele De Rosa, Bologna, Il Mulino, 1996, ISBN 978-88-15-05231-5
  • Luigi Sturzo, Scritti inediti, a cura di Francesco Piva, Franco Rizzi, Francesco Malgeri, prefazioni di Gabriele De Rosa, 4 volumi, Roma, Istituto Luigi Sturzo; Palermo, Editrice Mediterranea, 2001
  • Luigi Sturzo, Emanuela Sturzo, Carteggio (1891-1948), a cura e con introduzione di Vittorio De Marco, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, ISBN 88-4981-199-3
  • Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Carteggio (1920-1953), a cura e con introduzione di Francesco Malgeri, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, ISBN 978-88-4981-794-2
Opere scelte di Luigi Sturzo, a cura di Gabriele De Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1992. Comprende:

mercoledì 18 novembre 2015

TERRORISMO A PARIGI E LIVELLO ETICO DI ONESTA’ INTELLETTUALE


«La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l'ombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto sì a l'altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n'è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi».
«Se tu avessi», rispuos' io appresso,
«atteso a la cagion per ch'io guardava,
forse m'avresti ancor lo star dimesso».
Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava
dov' io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch'un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa».
(DANTE DIVINA COMMEDIA INFERNO  XXIX CANTO)

Mentre stavo ancora apprendendo le notizie che arrivavano convulse da Parigi, mentre ascoltavo le parole del presidente Hollande, del Presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, mentre ascoltavo le parole di vicinanza espresse dal presidente Cinese e da Barack Obama, non potevo fare a meno, nello sconforto più profondo del mio cuore, di fare una riflessione a cui vorrei che partecipaste tutti voi, con onestà intellettuale.
La situazione che stiamo vivendo da circa quindici anni ormai, non è più sostenibile, non possiamo più pensare di continuare a vivere in questo incubo continuo in cui il male può venire all’improvviso e dovunque per colpire a loro insaputa anime innocenti, magari anche nostri familiari, vittime di decisioni assurde che si sono prese nelle stanze dei bottoni per interessi spacciati per obiettivi politici che nascondono invece biechi interessi economici.
Interroghiamoci su questo. Purtroppo dobbiamo accettare, anche se è difficile che la libertà di ciascun uomo è totale e quindi in grado di compiere anche atti assurdi come quelli terroristici. Ma un’altra immediata domanda è perché tale libertà arriva a far compiere tali atti? Qual è la causa e quali sono i significati?
Certo viviamo in un mondo la cui complessità non solo è data dalla omologazione sistematizzata della globalizzazione, ma soprattutto dalla complessità degli intrecci economici con il malaffare, con mafie e terrorismi di ogni genere di cui invece di bloccarne le cause, siamo usi, piangerne i risultati.
Le idee e ciò che voglio dire è talmente multiforme, composito ed eterogeneo, che ho difficoltà a fare chiarezza nel pensiero che voglio e tento di condividere con voi.
Cercando perciò di trovare un filo conduttore che possa permettermi di trovare il percorso in questo labirinto di incertezza intellettuale vorrei fare un excursus innanzitutto sulle cause, poi sul significato degli atti di terrorismo che ho già esplicitato nel mio post  di mercoledì 14 gennaio 2015 TERRORISMO, SATIRA, ISLAM E ETICA, in occasione dell’atto terroristico contro Charlie O’ ed infine sull’atteggiamento etico che a mio avviso dobbiamo tenere per tentare di risolvere il problema.
Cominciamo così a soffermarci sulle cause di questo ulteriore atto di terrorismo che molti chiamano “atto di guerra”, quasi per distinguerne la connotazione. Purtroppo il terrorismo islamico così come oggi attuato è da considerarsi come un vero e proprio modo di portare una guerra al cuore del mondo occidentale. Quindi che si  usi il termine guerriglia, resistenza o terrorismo si tratta sempre di atti che includono il sacrificio di vittime innocenti che il termine guerra sembrerebbe escludere, anche se la nozione di guerra  in senso moderno prevede sempre e comunque il sacrificio di vittime civili innocenti.
Allora pur se può sembrare un assunto irrispettoso, ovviamente non nei confronti delle vittime, ma dei governanti e di coloro che li hanno eletti e che li tengono sulle poltrone, possiamo dire che “chi è causa del suo mal pianga se stesso” come dice Dante nel suo XXIX canto dell’inferno. Il significato di questo assunto mira infatti ad avvertire colui che è stato causa del proprio danno che deve prendersela esclusivamente con se stesso, senza addossare la responsabilità ad altri. Ciò è talmente chiaro che lo si può trovare espresso nelle diverse lingue. In inglesesi dice infatti: "As you make your bed, so you must lie in it"; in tedesco "Wie man sichbettet, so liegtman"opiùletteralmente"Wer der Grund seines Unglücksist, beweinesichselbst", mentre in francese “Comme on fait son lit, on se couche” oppure “"On paye les pots que l'oncasse." Quindi il problema consiste in due momenti, il primo è quello di riflettere sull’azione che si compie ed il secondo è accettarne le conseguenze, senza recriminazioni.
Ma c’è un ulteriore elemento da rilevare ed è il problema di comprendere chi è che genera il terrorismo, Dante lo descrive bene nel Canto citato: è il “seminatore di discordia”. Ecco l’elemento scatenante del terrorismo! Dante pone questa categoria in un ambiente dell’inferno (nona bolgia dell’ottavo cerchio) dove questi peccatori subiscono come contrappasso di essere ‛ smozzicati ', vale a dire colpiti dalla spada di un diavolo che taglia parti del loro corpo o li ferisce straziandoli, costringendoli a passare oltre, e nel giro del cerchio guariscono sicché di passaggio in passaggio il loro strazio si rinnova.
Anche questi seminatori di discordia, che appartengono spesso ai nostri Governi, ai nostri servizi segreti, alle nostre multinazionali, andrebbero quindi puniti e…..noi che accettiamo bovinamente le loro decisioni e le loro strategie politico-economiche, non dobbiamo che prendercela con noi stessi…quando contiamo i nostri morti!
Ma cerchiamo di fare memoria degli atti di terrorismo domestico e internazionale e cerchiamo di capire come e da chi sono stati generati. Per ricordarne i nomi ed i luoghi geograficipossiamo andare sulla paginahttps://it.wikipedia.org/wiki/Categoria:Attentati_terroristiciin cui viene messo in evidenza che sono 34 le pagine che li riportano anche se in realtà sarebbero almeno 42, senza prendere in considerazione quelli perpetrati in M. O.,  in quanto non si riportano, né gli attentati ai treni di Madrid l’11 marzo del 2004, né quelli alla metropolitana di Londra del 2005 né l’attentato di Parigi a Charlie Hebdo, né la strage di Soussa, in Tunisia né i due attentati aerei avvenuti in Egitto nei scorsi giorni, né quello di Beirut della settimana scorsa  e né ovviamente la strage del 13 novembre!
Non potendo occuparci di tutti gli atti riportati, soffermerei la nostra riflessionesulla consistenza del terrorismo islamico.  Questa configurazione di terrorismo, che sta mettendo in crisi la realtà occidentale, continua a crescere inesorabilmente nonostante le molte dichiarazioni di non voler abbassare la guardia e qualche manifestazione esclusivamente mediatica da parte dei governi occidentali. Il modo di osservare gli eventi però non può disgiungersi da un senso critico necessario che ci chiede la risposta a tre quesiti: 1) quando è cominciata questa fase; 2) chi sono i responsabili e se sono stati in qualche modo perseguiti; 3) perché esiste il terrorismo islamico.
A mio avviso in questa sede, possiamo rispondere solo in maniera molto concisa, ma ciò non toglie che possa essere precisa e densa di contenuti.
QUANDO E’ COMINCIATA LA FASE DEL TERRORISMO ISLAMICO
Alla prima domanda direi che questa fase è cominciata con la prima guerra del Golfodel 1991 voluta da George Bush Senior (George H. W. Bush) con la collaborazione fra gli altri di James Baker, segretario di Stato, Colin Powell, capo dell'esercito USA, Norman Schwarzkopf, generale delle forze armate nel Golfo, Richard Cheney, segretario alla Difesa. Proseguita poi con l'insediamento  a presidente degli USA del repubblicano George W. Bush che il 20 gennaio 2001 avvia una strategia di politica estera mirante esclusivamente alla salvaguardia degli interessi americani nel mondo e soprattutto ad ottenere petrolio a 0,80 centesimi di dollaro rispetto al costo di 11 dollari al barile. La scintilla per lo scoppio della seconda Guerra del Golfoè l'attacco alle Twin Towers dell'11 settembre che sconvolge il mondo. La responsabilità dell’attentato viene individuata nella pista islamica legata al gruppo terroristico di Al Qaeda guidato dal saudita Osama Bin Laden supportato secondo l'amministrazione americana dalla complicità nell’attentato, dell'Iraq, più volte umiliato militarmente in passato dagli Stati Uniti.
Il 20 marzo 2003 inizia così questa seconda guerrache in tre settimane  porta gli Stati Uniti alla vittoria grazie alla  loro schiacciante superiorità in tecnologia militare contro un Iraq fermo ai livelli della Prima guerra del Golfo del 1991. La guerra viene motivata, davanti al congresso Usa ed all’Assemblea dell’ONUda un falso rapporto sull’esistenza di armi per la distruzione di massa possedute dall'Iraq come affermato dal Segretario di Stato americano Colin Powell e dalla Gran Bretagna, armi che però non sono mai state trovate così come non sono stati provati i legami tra l'Iraq di Saddam e il terrorismo internazionale come si può leggere nel sito:
http://www.repubblica.it/online/esteri/iraqattaccotrentadue/wolfowitz/wolfowitz.html.Da lì si sviluppa tutta la sanguinosa serie di attentati di matrice islamica attribuiti ad Al Qaeda fino all’avvento dell’ISIS o meglio del Califfato islamico che vuole attraverso la Jihad recuperare l’egemonia islamica. Senza approfondire oltre credo che per avere chiaro il contesto che si è creato basti fare un excursus tra Medio-Oriente e Nord Africacitando semplicemente i paesi che li ospitano essendo vittime a loro volta dei tagliagole dell’IS: Iran, Iraq, Libano, Siria, Turchia, Egitto, Libia e Tunisia.  Questo teatro di guerre, atti di terrorismo e decapitazioni ha creato lo scompiglio non solo nei Paesi che subiscono gli attacchi, quanto più nelle menti e nella psiche di ciascuno dei loro abitanti.
CHI SONO I RESPONSABILI E COME SONO STATI PERSEGUITI?
Questa realtà provocata dal tessuto capitalistico occidentale, non viene presa in considerazione, eppure si capisce immediatamente che il male in se stesso è causato proprio da questa impostazione che non ammette però colpevoli. Infatti mentre perseguiamo gli autori di crimini contro l’umanità perpetrati da capi di stato o capi militari dell’Europa dell’est, dell’Africa, dell’America latina, non ci sogniamo nemmeno lontanamente di accusare e perseguire per “reati ignobili e crimini contro l’umanità” gli autori di questa perdurante carneficina. Gli episodi che ci fanno inorridire non sono spontanei, ma da considerare come “spregiudicata e premeditata reazione” contro un sistema che “esporta la pace” con la guerra. Un sistema che usa gli arsenali  di armi come produttori di ricchezza. Arsenali il cui valore economico ha una durata di 10 anni circa e che per dare la loro massima utilità devono essere assolutamente svuotati per non scadere nell’obsolescenza. Allora domandiamoci chi sono i colpevoli e perché i vari Bush, Cheney, Powell e company, non vengono perseguiti da nessuno pur avendo mentito spudoratamente di fronte all’umanità? Perché non vengono chiamati in giudizio coloro che hanno provocato l’illusione della “primavera araba”  che sotto la facciata della democratizzazione di questi paesi era in realtà mirata puramente alla vendita di armi? perché non vengono chiamati in giudizio coloro che alimentando i dissidi tra palestinesi ed israeliani, tra cristiani e mussulmani hanno come solo obiettivo quello di arricchirsi vendendo qualsiasi tipo di armi e di tecnologie di guerra? Perché non vengono incriminati coloro che hanno creato i Mujaheddin in Pakistan per battere i Russi e poi si sono ritrovati contro lo spettro di Bin Laden; coloro che hanno addestrato le forze dei ribelli contro l’Iraq e poi perché si sorvola sui rapporti tra il Senatore Usa John McCain ed il Califfo AbūBakr al-Baghdādī volti alla creazione di una forza armata di ribelli anti Assad in Siria? Perché non vengono incriminati e puniti coloro che per proprie strategie di equilibrio politico-economico, fomentano guerre e terrorismo per ottenere potere e soldi attraverso l’insediamento dicariche politiche, la creazione di nuove strutture belliche ed infine la fornitura e vendita di armi sempre più letali e sosfisticate?

PERCHE ESISTE IL TERRORISMO ISLAMICO
Il terrorismo esiste perché esiste l’odio. Esiste perché c’è una parte di umanità che è convinta di non aver nulla da perdere, anzi al contrario,ha molto da guadagnare con il sacrificio della propria vita! Così il terrorismo ha creato insicurezza nella società nella quale viviamo. La nostra pretesa civiltà o superiorità culturale in realtà comunque la si voglia qualificare dal punto di vista, sociale, politico o economico forse in sostanza non ha nulla da invidiare, in quanto a fanatismo,  al fondamentalismo islamico. La nostra cultura infatti,è assurdamente ed incessantemente sottoposta all’aspro strapoteredel materialismo più bieco, dell’economicismo più efferato, della competizione più disumana. Se guardiamo la nostra realtà ci accorgiamo che siamo tutti spinti verso la ricerca del godimento immediato, che subiamo in ogni momento l’affanno di una vita immaginariamente migliore, l’ansia della qualità, il fascino intrigante dell’onnipotenza, il mito della forza della massa, la potenza del numero e la verità pilotata dei dati statistici. Non ci accorgiamo che il dare prevalenza all’avere sull’essere ci impone l’insofferenza dell’attesa, il rifiuto della pazienzanella costruzione attenta delle cose e soprattutto il bisogno incessante di consumare beni sempre più simbolizzati che rappresentano la nostra sete di avere tutto e subito a qualsiasi costo.Non ci rendiamo conto delle strutture di peccato che si vanno vieppiù creando attraverso la brama di profitto e la sete di potere ad ogni costo. Che differenza c’è tra il paradiso mediatico televisivo ed il paradiso islamico delle 99 vergini: solo la morte. Questa morte che nella nostra cultura è la vita anche se asservita ai vizi, al gioco, alla droga, alla conquista del potere. La nostra visione della sacralità della vita è percepita in maniera diversa, ma ciò non toglie che anche noi saremmo capaci di quella medesima violenza. Le faide che generano per diversi motivi la violenza ed il terrorismo sono poi alla fine originate dallo stesso movente: cecità umana e odio inarrestabile verso la vita altrui anche verso chi non ci ha offeso. L’invidia di vedere nell’altro un paradigma diverso. La ricerca di un misterioso al di là.

LIVELLO ETICO DI ONESTA’  INTELLETTUALE
Ecco perché il reclutamento di terroristiislamici avviene, paradossalmente, anche nei nostri Paesi. Ecco perché a mio avviso i terroristi che noi crediamo islamici in termini di nazionalità in realtà provengono per la maggior parte dai nostri paesi più progrediti, come Francia, Regno Unito e Stati uniti. Sotto le barbe incolte e gli occhi spiritati in realtà c’è un’origine occidentale, c’è una fredda capacità di uccidere appresa non certo in Medio oriente, anche se lì viene fomentata dalla rabbia e voglia di rivalsa islamica. Finora tutti  i terroristi identificati erano stati allevati e culturalmente formati in occidente..persino quel tagliagole diJihadi John è il londinese Mohamed Emwazihttp://www.ilgiornale.it/news/mondo/ecco-chi-boia-dellisis-jihadi-john-londinese-mohamed-emwazi-1099206.html .
Questo forse perché l’assenza di mistero e di senso della vita apre la strada a “illusioni islamiche” alla ricerca di un’ideologia risanatrice dei costumi, appagante dello zelo verso una regola spirituale. Ecco dunque che in tale tipo di società si producono questi “foreign fighters” che ricercano nell’Islam la loro vocazione militante.Ecco che “menti occidentali” scientificamente erudite, vanno a formare la struttura raffinata del tessuto terrorista: la loro ricerca trova fondamento in un indottrinamento non mitigato dalla ragione e pertanto interiorizzato pedissequamente dai fedeli del Corano che invece di cercare nella parola del Profeta gli elementi della edificazione spirituale, ne assumono ideologicamente gli incitamenti all’egemonia, alla distruzione dei nemici del Corano. Ecco dunque che questa ideologia diviene facile preda delle trappole tese dai “venditori di morte” occidentali, dai loro “servizi segreti deviati” dai loro “strateghi geopolitici” miranti a costruire nuovi equilibri dettati dalle lobbies del potere economico finanziario. Fomentare l’ideologia ed il fondamentalismo religioso è il terreno più facile per vendere le armi, per ottenere privilegi, per sfruttare miniere e pozzi di petrolio. Fornire le armi dimostrando che la loro forza letale non necessita di molti uomini, ma ne basta uno che indossi una cintura di esplosivi, di una persona che imbracci un Kalashnikov, di un “esaltato” che veda nel proprio suicidio autoesplodente, la sublimazione della propria vita per la causa,  è facile quando si opera sull’ignoranza delle persone, sulla loro ingenuità e faciloneria intellettuale.


martedì 27 ottobre 2015

SINODO FAMIGLIA:MATRIMONIO E CONFINI DELL’ETICA

La natura dell'amore coniugale esige la stabilità del rapporto matrimoniale e la sua indissolubilità. La mancanza di questi requisiti pregiudica il rapporto di amore esclusivo e totale proprio del vincolo matrimoniale, con gravi sofferenze per i figli e con risvolti dannosi anche nel tessuto sociale.
La stabilità e l'indissolubilità dell'unione matrimoniale non devono essere affidate esclusivamente all'intenzione e all'impegno delle singole persone coinvolte: la responsabilità della tutela e della promozione della famiglia come fondamentale istituzione naturale, proprio in considerazione dei suoi vitali e irrinunciabili aspetti, compete piuttosto all'intera società. La necessità di conferire un carattere istituzionale al matrimonio, fondandolo su un atto pubblico, socialmente e giuridicamente riconosciuto, deriva da basilari esigenze di natura sociale.
L'introduzione del divorzio nelle legislazioni civili ha alimentato una visione relativistica del legame coniugale e si è ampiamente manifestata come una « vera piaga sociale ».497 Le coppie che conservano e sviluppano i beni della stabilità e dell'indissolubilità « assolvono ... in modo umile e coraggioso, il compito loro affidato di essere nel mondo un “segno” — un piccolo e prezioso segno, talvolta sottoposto anche a tentazione, ma sempre rinnovato — dell'instancabile fedeltà con cui Dio e Gesù Cristo amano tutti gli uomini e ogni uomo ».498
Dal COMPENDIO DELLA DSC punto 225 pag. 126 Ed. LEV 2005.


Tra le diverse notizie che affollano gli spazi mediatici tra storie di corruzione (leggi Anas e mafia capitale) tra storie di malversazioni (leggi Volkswagen e mercato automobilistico tedesco) una fuori dal normale che appare importante approfondire è l’argomento Sinodo sulla Famiglia. Non è certo un argomento semplice da trattare, però a livello etico credo che la coscienza di tutti e non solo dei cattolici venga coinvolta nelle decisioni che scaturiranno dalle 94 proposizioni presentate a papa Francesco e che rispecchiano le situazioni di incertezza su cui ci si attende una risposta di verità in quanto il relativismo etico che viviamo in questi tempi di transizione non distingue più la verità da quello che è l’opinione delle singole persone. Purtroppo dobbiamo riscontrare sempre più la colpa strumentale dei mass media e della cultura del consensosoggettivo ed indiscriminato rispetto all’obiettività delle situazioni. Detto ciò, so che forse sarà difficile il mio ragionamento, ma cercherò di renderlo quanto più semplice e snello possibile in modo da poterci confrontare con una realtà che fondi su principi veri a cui ancorarsi e non soltanto su opinioni comuni dettate dalla libertà di ciascuno di scegliere sulla base dei propri gusti e delle proprie preferenze. Tanto per capirci basta fare l’esempio della teoria del gender laddove si rifiuta la legge naturale per scegliere di definire un impulso soggettivo che potrebbe essere anche dettato da un’anomalia naturale, ma che è comunque un’anomalia. E’ come non voler fare differenze tra normodotati e diversamente abili. Purtroppo la differenza c’è ed è evidente. Pertanto se si nasce con gli attributi maschili si è maschi se si nasce con quelli femminili si è femmine. La natura non lascia spazi alla preferenza soggettiva.La disabilità come la deviazione sessuale (non in senso spregiativo, ma come dato di fatto) devono essere riconosciute e pertanto trattate come tali.  Quindi così come non si può pretendere che un disabile abbia le funzionalità del normodotato, pur rispettando per lui tutti i diritti umani e civili attribuibili, così per quanto riguarda un omosessuale, pur rispettando tutti i suoi diritti non si può, per ragione naturale,paragonarlo ad un eterosessuale in termini funzionali. Allora si capisce che il rispetto dei diritti è una cosa e l’esercizio delle funzioni è altro. Detto questo possiamo penetrare nei problemi che sono stati o no affrontati dal sinodo, innanzitutto per ciò che concerne il concetto di famiglia legato al matrimonio; il concetto di matrimonio come realtà possibile tra esseri eterosessuali; il matrimonio come realtà sacramentale indissolubile;  il matrimonio come diritto ad usufruire dei beni sacramentali derivanti dall’appartenenza alla chiesa cattolica; inserendoci poi  anche il problema del matrimonio dei sacerdoti in opposizione al celibato; in secondo luogo per quanto riguarda questi ultimi anche la condizione omosessuale esistente, ormai possiamo dirlo, in diversi di loro. Procedendo per gradi onde ritrovarci nei confini dell’etica che caratterizza queste situazioni, io direi di portare il nostro ragionamento in maniera equilibrata su qualcuno dei diversi fronti evidenziati cercando pacatamente di vedere al di là di ciò che una lettura affrettata dei giornali o le parole sciorinate da un talk show possano farci comprendere.

SINODO
Non vorrei parlare di sinodo come ne hanno parlato tutti, vale a dire del suo significato di relazione dialettica tra i gruppi, alla ricerca di un punto di incontro tramite un dialogo aperto sincero e finanche acceso e conflittuale. Il lato dell’attività sinodale che vorrei invece affrontare è quello del livello di riflessione. Come abbiamo potuto ascoltare dai diversi padri sinodali intervenuti, tutti gli argomenti riguardanti le unioni matrimoniali hanno preso certamente in considerazione la coppia ed i suoi problemi, ma  sempre rapportati ad un livello teologico di relazione sacramentale e di integrazione a livello religioso. Ovviamente il Sinodo essendo formato da persone esperte soprattutto di concetti legati al matrimonio, senz’altro anche a livello pastorale, ma pur sempre a livello teologico, non potevano che concentrarsi sugli elementi sacramentali di questo, senza considerare a fondo che il matrimonio è una realtà essenzialmente  umana rappresentata da una unione naturale e pertanto di fatto o da una unione sacramentale e pertanto religioso. Ovviamente quando parlo di matrimonio di fatto estendo il concetto pure a coloro che si sposano anche con il solo rito civile, per distinguerli da quelli che lo fanno con il rito religioso. Ma si badi bene dobbiamo considerare unione matrimoniale anche le cosiddette coppie di fatto che decidono di formare una famiglia ancorché non legalizzata. Tutto questo perché quando parliamo di matrimonio come espressione della volontà di un uomo ed una donna di unirsi per un progetto di vita insieme il cui obiettivo è quello naturale di ricercare il frutto della propria unione che si concretizza nella nascita dei figli,  parliamo  intrinsecamente di famiglia. Dunque la famiglia esiste a prescindere che ci si sposi con rito religioso, civile oppure che non ci si sposi affatto: la famiglia esiste perché è sancita dalla libera e cosciente volontà dell’unione tra un uomo ed una donna il cui frutto naturale saranno i figli che verranno.  La famiglia pertanto non è altro che il risultato di una progettualità umana e come tale anche necessariamente sociale. Eccoci dunque a discutere di ciò che forse il Sinodo avrebbe dovuto mettere in evidenza: la famiglia per essere tale deve avere la possibilità di esistere e la sua esistenza non può essere considerata solo a livello teologico. I rapporti tra un uomo ed una donna, tra marito e moglie, tra coniugi e figli, tra famiglia e società, sono possibili solo nella misura in cui vengono sostenuti i bisogni primari, che pur se i teologi pongono in secondo piano, sono alla base del progetto unitivo finalizzato alla formazione di una famiglia. Tali bisogni fisici non consistono solo in pulsioni, repressioni, o meccanismi comunicazionali o psicologici della coppia, essi sono rappresentati da situazioni tangibili che si originano quasi sempre al di fuori della coppia e della famiglia che inconsapevolmente leintroitaa volte anche prim’ancora che si formi, per poi palesarsi in maniera drastica ed incisiva nella relazione di coppia e nelle relazioni familiari. Ma quali sono queste cause esterne? Per capirlo basta chiederlo a chiunque abbia le responsabilità di una famiglia.Però responsabilità effettive, intendo diree non come semplice appartenenza, vale a dire che un padre e una madre sono implicati in maniera tale, che un figlio, pur se appartenente alla stessa famiglia, non è neanche in grado di immaginare.Pertanto se la famiglia è un progetto, chi la forma deve innanzitutto avere l’idea del progetto, del contesto in cui sviluppare questo progetto; deve avere la capacità economica e finanziaria per dare vita e sostenere il progetto;deve poter contare su delle regole certe che facciano da guide-lines al progetto;deve poter usufruire di strutture ed infrastrutture che possano sostenere il processo di sviluppo del progetto. Il Sinodo a mio avviso avrebbe dovuto centrare prima di tutto questi obiettivi per poi discutere della relazione di coppia a livello sacramentale. Avrebbe dovuto semplicemente porsi gli interrogativi di come analizzare un “businnessplan” d’ordine familiare ai diversi livelli e nelle diverse localizzazioni, per poter capire e trovare modi di intervento per quelli che restano i fondamenti reali su cui la famiglia poggia: il lavoro, la capacità economico-reddituale, la possibilità finanziaria, l’inserimento nella previdenza sociale ecc. e questi elementi si derivano da una semplice analisi sequenziale, vale a dire che una coppia può fare un progetto di vita familiare se almeno un componente ha un lavoro; se si percepisce un reddito adeguato; se si può ottenere una casa sia in affitto che in acquisto; se si possono ottenere mutui a tassi non di strozzinaggio; se si può accedere ai servizi pubblici di istruzione e di solidarietà sociale ecc. Tutti elementi che nascono da una visione politica di bene comune. Inoltre a tutto ciò deve aggiungersi  il problema della visibilità, vale a dire che sposarsi costa! Ecco perché molte unioni preferiscono restare coppie di fatto. Anche i figli, per quanta grazia possano essere, costano! La nascita di un figlio a volte impedisce di lavorare; i figli hanno bisogno di tempo da dedicare loro; la gravidanza, tranne che in qualche Paese, non gode di sostegni sociali adeguati, pur se le rivendicazioni sindacali erano riuscite ad avere un piccolo supporto in termini di diritti della lavoratrice. Inoltre la famiglia deve farsi carico del sistema educativo dei figli, del sistema assistenziale dei propri membri, della solidarietà familiare tra generazioni.  Allora alla luce di questa riflessione appare condivisibile pensare che solo dopo aver trattato tali argomenti  in chiave socio-politico-economica, richiamandola necessità di una presa di coscienza effettiva da parte dei responsabili, di una loro implicazione manifesta, il Sinodo sarebbe potuto passare ad analizzare i problemi di coppia, della loro realtà sacramentale e del loro sviluppo a livello familiare.

MATRIMONIO
Dopo questa prima osservazione andiamo anche a scomporre in maniera più rispondente il concetto di matrimonio. Quando si parla di matrimonio si intendono soprattutto tre cose: la fedeltà, l’indissolubilità e la cura della prole. Queste cose pur se comuni ad ogni tipo di unione, divengono condizione esistenziale per il matrimonio cristiano. La fedeltà è qualcosa che deriva dall’unione di due esseri che hanno scelto liberamente di donarsi in maniera esclusiva l’uno all’altro per un patto d’amore. Nel sacramento la fedeltà rappresenta il fondamento dell’amore verso l’altro concepito come esclusivo dono di Dio. L’indissolubilità deriva dall’unione naturale sancita dalla coscienza morale di chi esprime umanamente una promessa di amore esclusivo ed unico per l’intera vita. Tale carattere viene rafforzato ancor più dalla potenza sacramentale che sancisce questa promessa e che trascendendo la coscienza umana si configura come espressione di un volere divino che l’uomo non ha più il potere di scindere per l’eternità. Da ultimo mettiamo la cura della prole che rappresenta l’obiettivo fondamentale del progetto familiare è infatti un diritto/dovere della famiglia di crescere i propri figli trasmettendo loro tutti gli elementi fisici, metafisici e teologici di natura culturale, religiosa e tradizionale in piena libertà e senza alcuna interferenza dall’esterno. Nella realtà sacramentale questo diventa l’obiettivo dell’unione, vista come obiettivo di procreazione di altri esseri fatti ad immagine e somiglianza di Dio,che scaturisce dall’amore e che quindi va curata con il medesimo amore.  Se queste caratteristiche sacramentali, appaiono chiare allora si comprende anche il motivo per cui è stata finora negata la possibilità di dare la comunione ai divorziati. Se il matrimonio cristiano ha queste caratteristiche, chi le rifiuta, rifiuta automaticamente di essere nella Chiesa e pertanto appare un controsenso che un sacramento lo si rifiuti ed uno lo si ricerchi. Poiché la fede non può frammentarsi, ma deve ricondursi unicamente ad un carattere essenziale di unitarietà, va da sé che o i sacramenti si accettano tutti, senza riserve oppure non si accettano e quindi ci si autoesclude dai medesimi. Non è la Chiesa quindi che esclude, ma è colui il quale avendo infranto il  patto di unitarietà sacramentale si tira fuori da essa e quindi,per chi ha chiari questi termini di riferimento, appare difficile capire per quale motivo colui che ha rifiutato il sacramento del matrimonio dovrebbe poi poter accedere al sacramento dell’Eucarestia.  Questo vale tanto per coloro che provocano la rottura del vincolo matrimoniale, quanto per coloro che avendolo subito decidono, senza ricorrere all’annullamento sacramentale di ricostituire un’altra unione non sacramentale. Questi due atteggiamenti pongono coloro che li perseguono, fuori dalla matrice ecclesiale. Ma allora diremmo che non c’è soluzione! A mio avviso la soluzione andrebbe  ricercata sotto due profili, il primo concernente la presa di coscienza effettiva dei coniugi sul significato di  un’unione matrimoniale che nella sua normalità e come d’abitudine,si concepisce come legalizzata grazie alla sola lettura di alcuni articoli di legge, a volte anche a prescindere dal grado di comprensione profondo, espresso dalla coppia e l’apposizione di una firma. Il problema della formazione consapevole della coppia per un matrimonio libero e non contrattuale, resta in capo alle strutture istituzionali che però non se ne fanno carico e la Chiesa non può, anche se è lodevole, continuare a farsi carico di una preparazione che non appare adeguata alle necessità richieste dall’Istituto del matrimonio. Il secondo profilo invece riguarda la necessità di adeguamento dei caratteri sacramentali del Matrimonio al tempo attuale in cui, una più vasta conoscenza della realtà e una libertà di scelta caratterizzata da bisogni indotti, unite alla manifestazione di caratteristiche di violenza e disumanità quotidianamente veicolate dai mass media,renderebbero necessaria la revisione di alcuni principi concernenti le tre cose in precedenza accennate: fedeltà, indissolubilità e cura della prole.  In virtù di tale complesso contesto, la Chiesa dovrebbe sentirsi chiamata a studiare nuovi principi di annullamento e di nullità intervenuta dell’unione sacramentale, a causa di elementi non riscontrati al momento della celebrazione del matrimonio, oppure sopravvenuti per cambiamento della personalità di uno dei coniugi. La discussione sinodale dunque avrebbe dovuto valutare a livello teologico, quanto le manifestazioni di violenza sopravvenuta, le manifestazioni di infedeltà oggettivamente prolungata e non episodica, la schizofrenia comportamentale possano essere, se manifestamente provate, causa di nullità sopravvenuta motivata da una manifesta variazione dei caratteri della personalità di cui l’altro coniuge non aveva piena conoscenza, o non si erano completamente manifestati al momento del matrimonio. Questa presa d’atto dovrebbe essere procedurizzata sulla base di elementi effettivi e di episodi ricorrenti e consuetudinariamente riscontrati che permettano a chi ha contratto un matrimonio religioso di invocare l’estinzione della personalità pregressa del coniuge,  in cui aveva creduto e riposto fiducia, veicolatrice invece di una falsità ideologica riscontrata nei fatti successivi, che permetta di decretare in maniera chiara che l’assenza contestuale dei tre elementi suddetti vale a dire fedeltà, indissolubilità e cura della prole comportano un automatico scioglimento del vincolo sacramentale contratto, da decretare in maniera chiara da parte dell’autorità ecclesiastica, dando alla vittima dell’abbandono o della violenza o della prevaricazione,  la libertà di ricostituire un successivo vincolo familiare, con altra persona anche se non a livello religioso, non in contrasto però con la realtà sacramentale. In tal modo si determina per chi ha subito l’abbandono la possibilità di recuperare un equilibrio di vita anche spirituale attualmente non ammesso e quindi la riammissione ai sacramenti. Se ciò non avviene si ha un risultato di doppia penalizzazione per chi è vittima, mentre il colpevole può restare placidamente incolume.Si richiede pertanto una riflessione più puntuale che possa sanare questa disparità di trattamento.

I CONFINI DELL’ETICA NELL’UNIONE FAMILIARE
Per terminare l’argomento vale la pena capire quali siano i confini etici dell’unione familiare, da non confondere con quelli della realtà sacramentale del matrimonio. Tanto per essere chiari dobbiamo sottolineare che l’unione matrimoniale è il luogo in cui si esprime la vera dimensione del bene comune che si misura sulla persona meno dotata della famiglia.  Il bene comune infatti essendo il bene di tutti e di ciascuno può svilupparsi soltanto in un ambiente dove esista un tessuto d’amore reale che si alimenta nella fedeltà che trasmette fiducia e sicurezza, si concretizza nella solidità di un vincolo che non teme oscillazioni emotive perché è un legame d’amore che l’essere umano non riesce a sciogliere ed infine si manifesta nella premura reciproca non solo tra i coniugi, ma anche verso tutti i componenti della famiglia, specialmente quelli più deboli e bisognosi di cure.  I confini dell’etica in cui si sviluppa l’unione familiare sono perciò quelli del coraggio, dell’abnegazione, del dono di sé, della mutualità, della solidarietà personale e della sussidiarietà familiare orizzontale che fanno dei membri una successione di anelli che concatenandosi nei loro sentimenti più profondi, alternandosi ed integrandosi tra generazioni, testimoniano con la loro vita e con il loro atteggiamento solidale la realtà di un amore umano che, al di là di qualsiasi aspetto religioso, riesce a perpetuarsi e a trasmettersi autenticamente tra gli esseri umani, soltanto se viene percepito nella sua piena essenza teologale.