etica

"... Non vogliate negar l'esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza". (Dante, Inferno canto XXVI, 116-120).


giovedì 20 settembre 2012

Di fronte alla crisi: rigore, crescita, equità sociale


Si parla molto sia in Italia che in Europa e in tutto il mondo occidentale di “rigore”, in termini contabili e di “crescita”, in termini economici. Si vede nella “equità sociale” quasi una terza tappa, mentre dovrebbe essere trasversale e contestuale alle altre due dimensioni, in profonda, organica, reciproca interazione. Diversamente, i costi umani, personali e sociali, potrebbero diventare sempre più pesanti, se non insostenibili!

Alba Dini Martino

Tutti i Paesi europei sono oggi nel caos; tre parole ritornano continuamente nelle conversazioni e nelle diverse prese di posizione: rigore, crescita ed equità sociale. Tentiamo di portare qualche chiarezza in questa confusione.
Una delle cause all’origine della crisi è stata identificata: le banche e le istituzioni di credito sono state indicate all’opinione pubblica come le grandi responsabili della situazione attuale; tuttavia esse sono essenziali per far marciare l’economia e hanno svolto un ruolo molto importante nella prosperità che ha conosciuto l’Occidente. Esse sono infatti essenziali a far marciare l’economia; ricevendo i depositi dei privati e dei grandi fondi finanziari, esse accordano ad altri dei crediti che  permettono di iniziare delle attività o di creare delle imprese e, quindi, di distribuire dei salari; esse consentono anche a dei privati di poter migliorare le proprie condizioni di vita, (acquisto di un’auto, di un frigorifero, di un alloggio etc…); nello stesso modo, consentono agli Stati di organizzare la vita comune o di lanciare dei progetti di interesse pubblico. Il sistema funziona fino a quando coloro che hanno avuto dei prestiti sono in grado di rimborsare i debiti che hanno contratto. Ma tutti gli attori economici, gli Stati come anche i privati, hanno ceduto alla tentazione del denaro facile. Le banche hanno corrisposto ed è in ciò che si situa la loro responsabilità, perché è venuto il momento in cui sia i privati che gli Stati si sono trovati nella incapacità di rimborsare i loro debiti. Due vie erano possibili per uscire da questa situazione: lasciare che le banche fallissero, ma allora i risparmiatori avrebbero perso le loro economie e il mondo sarebbe entrato in un’era di povertà; oppure che gli Stati cercassero di evitare una tale via di uscita, imponendo alle banche di cessare di dare crediti non garantiti e riducendo le spese inutili; una parola designa questo orientamento: rigore; ma ciò è all’origine di un rallentamento dell’economia e quindi della contrazione della occupazione, come anche della massa salariale. Ma queste politiche hanno un costo umano.
Le categorie di cittadini che sono vittime del rigore sono principalmente le donne, che devono far vivere le loro famiglie con risorse ridotte, i disoccupati di cui una grande parte è formata da giovani che arrivano su un mercato del lavoro in cui non trovano opportunità e i pensionati, le cui pensioni, spesso miserevoli, non seguono il costo della vita. Anche i movimenti sociali chiedono ai governi di dare ossigeno alle popolazioni vittime del rigore, rilanciando la crescita attraverso la concessione di crediti per contenere la disoccupazione e distribuire risorse ai più sfavoriti; ma i governi resistono, perché in questo c’è il rischio di rilanciare l’inflazione.
Tutte le politiche si situano attualmente fra due poli: rigore e crescita; il primo crea le basi per una economia sana; il secondo ricorda che l’economia è a servizio dell’uomo. È qui che interviene il concetto di equità sociale che può essere così definito: la concezione che cerca di conciliare le esigenze contrarie del rigore e della crescita, in vista di adottare delle misure a beneficio di coloro che il rigore condannerebbe alla povertà, anzi alla miseria e alla marginalità sociale. Come è indicato anche in un rapporto delle Nazioni Unite: “l’equità sociale consiste nell’offrire condizioni di vita giuste ed eque per tutti, uomini o donne, al fine che essi possano soddisfare le loro necessità fondamentali, mangiare, bere, avere un alloggio dove ripararsi, lavorare, andare a scuola ...”. Si tratta di un “principio morale” che richiede di ridurre la povertà e di favorire il progresso materiale e lo sviluppo spirituale” di “tutti gli uomini e di tutto l’uomo”, (Paolo VI, Populorum progressio, 14). Esso costituisce un asse etico indispensabile da prendere in considerazione se vogliamo salvaguardare, in questo tempo di crisi, le acquisizioni personaliste della civiltà europea. Il richiamo alla nozione di equità permette di vedere i punti sui quali un miglioramento è auspicabile, necessario o indispensabile per attivare la società in uno sforzo solidale, dando contenuto alla nozione stessa di giustizia sociale. La nostra morale sociale non può tollerare che categorie intere della popolazione siano emarginate dalla vita della comunità, a causa della mancanza di educazione/formazione, della sotto-occupazione o della disoccupazione.
Giunti a questo punto della nostra riflessione,  un esame di coscienza ci è necessario. La messa in opera di una politica equa richiede dei sacrifici da parte di tutti, in particolare da parte di coloro che beneficiano di più del sistema attuale. Ora, è necessario riconoscere che se la nostra civiltà mediterranea ha sviluppato in ciascuno di noi un senso acuto della persona, che si manifesta tanto nei comportamenti individuali come in quelli di gruppo come la famiglia, ci è spesso difficile porci in una prospettiva globale, dando la preferenza all’interesse generale, piuttosto che a rivendicazioni particolari, spesso corporative. La nozione di equità sociale ci ricorda che è legittimo difendere i nostri interessi particolari, ma che anche tutta la società deve ripartire verso una maggiore prosperità. Ecco perché una mentalità universalista, segnata dalla carità, chiede agli uni e agli altri di riflettere in comune nelle organizzazioni ad hoc sui sacrifici che la società deve imporsi in modo solidale; le associazioni devono assumere il loro compito etico di educazione alla carità e alla solidarietà.

Padre Joseph Joblin – Cronache e Opinioni

Conoscenza e Coscenza


L’approfondita riflessione qui proposta sulla nozione di coscienza e sulle sue  radici cristiane - considerata anche in relazione alla conoscenza - sembra particolarmente pertinente, ricca di significativi suggerimenti per un dialogo fruttuoso nell’ambito dei contenuti dell’Incontro-Giovani, quest’anno centrato sul tema Conoscere per crescere.
Alba Dini Martino


Il linguaggio comune lega la coscienza alla conoscenza: si ha coscienza di qualcosa.
Dal punto di vista filosofico, essa consiste in quel potere che l’uomo ha di conoscersi in quanto soggetto pensante distinto dagli oggetti che conosce.  Tale facoltà permette all’individuo di formulare dei giudizi di valore morale sui suoi atti, sulla scorta di una gerarchia  di valori che egli ritiene veri. Dal punto di vista dell’antropologia religiosa, la coscienza consiste in quella “legge scritta  da Dio dentro il cuore dell’uomo”  e “che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male”, (Gaudium et Spes, 16). Essa permette a ciascuno di giudicare sul valore dei suoi atti o di una situazione, in rapporto alla rappresentazione che egli ha del Vero, del Bello, del Bene e del Giusto; egli ne porta la responsabilità davanti agli uomini e davanti a Dio; la coscienza è, dice S. Girolamo, una “scintilla” che mai si estingue e che fa “sentire” un’azione come buona o cattiva: essa dà fondamento alla dignità della persona umana.
L’esercizio del  giudizio da parte della coscienza è sottoposto a numerose influenze; queste non sono soltanto esterne come può essere la propaganda o ciò che è stato chiamato la “rieducazione”; esse sono anche interne e i lavori di Freud e dei suoi successori hanno messo in evidenza il potere dell’inconscio sulla coscienza. Secondo la dottrina cattolica, tale potere non arriva a sopprimere la responsabilità individuale. Scopo dell’educazione è infatti quello di affrancare da tali dipendenze insegnando all’individuo a diventare padrone dei suoi istinti e delle sue emozioni; si parla allora di una coscienza formata, più o meno; del resto, il giudizio della coscienza non è necessariamente infallibile; essa può ingannarsi per ignoranza, in questo caso è erronea e può esserlo invincibilmente, oppure, poiché esita nella formulazione del suo giudizio è dubbiosa.  Esistono anche altre qualificazioni della coscienza: si dirà che è retta, quando sa discernere abitualmente sul valore morale di un atto; essa è detta permissiva quando percepisce soltanto i “grossi” divari fra bene e male; in questo caso è priva di finezza; la si dirà scrupolosa se, al contrario, vede il male anche dove non c’è. Su un altro registro, si parla di coscienza sociale quando è sensibile ai problemi della società e, più particolarmente, alle ingiustizie che esistono in una data società.
Problemi legati al rispetto della dignità
della coscienza 
La nozione di coscienza del Cristianesimo non è condivisa da tutte le civiltà. Sebbene la nozione di coscienza sia comune a tutte le civiltà, ognuna di esse definisce i rispettivi diritti e doveri in funzione della sua antropologia: è così che il termine “coscienza”, è stato incluso nell’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 19481 per soddisfare la richiesta del delegato cinese, secondo il quale l’essere umano “è dotato di ragione”, prima di tutto per sviluppare il senso del “dovere di benevolenza” nei confronti degli altri esseri umani e non in vista del suo proprio divenire personale.
La nozione di coscienza del Cristianesimo non è condivisa da tutti i membri delle società democratiche. Se tutte le società democratiche mettono la coscienza a fondamento della dignità umana e fanno del suo rispetto un principio essenziale dell’ordine pubblico, esse differiscono sulle conseguenze che ne traggono nell’organizzazione della società. Con il pretesto di non voler intervenire nel dominio della coscienza, alcune società occidentali ritengono di essere rispettose del principio di non-discriminazione, ponendo sullo stesso piano religione e libero pensiero; ma, in questo modo, riducono la religione a nient’altro che un’opinione fra le altre; non riconoscendo la specificità di tale fenomeno, visto che si schierano per il libero pensiero, sostengono precisamente che le credenze religiose devono essere trattate come opinioni soggettive. Ma se ogni manifestazione esterna  della coscienza religiosa, la cui legittimità è riconosciuta dall’art. 18 della Dichiarazione del 19482,  viene rifiutata dai pubblici poteri ogni qual volta qualcuno se ne dichiari leso, il libero pensiero nella vita pubblica diventerà la regola di quella società. Ugualmente, quando gli insegnanti e i manuali del sistema della pubblica istruzione si vedono impedito di fare riferimento al fatto religioso per spiegare il meccanismo della coscienza, si manifesta il rischio reale di vedere diffondere la non credenza. La difficoltà che viene a sollevarsi  è gravida di gravi rischi di conflitto fra credenti e istituzioni politiche dell’Occidente. L’interpretazione dei principi democratici che sono alla base delle società moderne deve dunque essere ripensata per risolvere questo conflitto potenziale e tener conto del fatto che il credere appartiene ad un ordine proprio che non può essere ridotto a semplice opinione; esso affonda su una relazione con l’Assoluto che ha incidenza su tutti gli aspetti della vita.   

1 “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”
2 “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.”

Padre Joseph Joblin, sj – (Cronache e Opinioni n. 7/8 pag. 20 luglio/agosto 2011)

La volontà della Nazione. Il diritto dei popoli all’autodeterminazione


La riflessione che proponiamo appare particolarmente pertinente in relazione agli avvenimenti a cui stiamo assistendo, soprattutto sulla sponda-sud del Mediterraneo e che possono essere interpretati anche in questa prospettiva. Sembra, quindi, molto opportuno fermare l’attenzione sul fondamentale diritto dei popoli all’autodeterminazione, sulle sue origini storiche e sul suo autentico, complesso significato.
Alba Dini Martino

I popoli si rivoltano sovente contro i loro oppressori quando le istituzioni giuridiche non riconoscono loro la possibilità di esprimere la propria opinione e di darsi un sistema politico di propria scelta. L’Occidente ha trasformato progressivamente questa constatazione di fatto in un diritto, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. E dalla filosofia individualista, che fonda la legittimità del potere su un contratto stipulato fra governanti e governati, discendeva logicamente che, in alcune circostanze, questi ultimi potessero impugnarlo.
La Dichiarazione di indipendenza americana (1776) è senza dubbio il primo testo a fare riferimento a questo diritto, (sebbene il termine non fosse formulato), quando ricorda che i governanti detengono il loro potere sulla base del consenso dei governati e che questi hanno, di conseguenza, il diritto di cambiarli o di abolirne le rispettive istituzioni.
La Rivoluzione francese riprenderà l’idea della preminenza dei diritti dell’individuo sulle istituzioni e la diffonderà in Europa. Un decreto del 1792 (19 novembre) dichiara che la Convenzione “accordera fraternité et secours à tous les peuples qui voudront recouvrer la liberté”, (“accorderà fraternità e soccorso a tutti i popoli che vorranno riacquistare la libertà”). La Costituzione, che essa voterà nel 1793, spingerà tale logica fino a inscrivere in se stessa il dovere del popolo ad insorgere contro ogni governo che violi i suoi diritti e parlerà al riguardo del “plus sacré des droits et le plus indispensable des devoirs”, (“il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri”) (art.35). Tali sono i principi generali all’origine della dottrina del diritto all’autodeterminazione delle nazioni e del diritto dei popoli a disporre di se stessi.
La nazione è qui considerata come un soggetto di diritto capace di esprimere una sua volontà. Questa dottrina sarà invocata nelle guerre balcaniche contro l’Impero ottomano e il presidente Wilson la includerà nei 14 punti che formulerà per ristabilire la pace dopo la prima guerra mondiale (11 febbraio 1918).
Malgrado tali riferimenti, questo diritto non è stato consacrato dal patto della Società delle Nazioni; si dovrà attendere la seconda guerra mondiale per vederlo entrare nei documenti internazionali, (Carta atlantica, Dichiarazione di Yalta), prima di vederlo formulato chiaramente nella Carta delle Nazioni Unite (art.1 e 2). I Patti internazionali sui diritti dell’uomo (1964) estenderanno tale diritto da un ambito strettamente politico a quello della libera disposizione, da parte dei popoli, “de leurs richesses et de leurs ressources naturelles”, (“delle loro ricchezze e delle loro risorse naturali”), (art.1 e 2).
L’affermazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli si manifesta, tuttavia, non priva di ambiguità. Per alcuni, essa costituisce l’enunciato di un principio a cui le diverse politiche devono ispirarsi; per altri, si tratta di un diritto effettivo e il non onorarlo in tutte le circostanze costituisce ingiustizia grave. I testi internazionali non hanno dissipato questa incertezza; infatti la Risoluzione 2625 (XXV), adottata in occasione del 15° anniversario della creazione delle Nazioni Unite, da una parte indica in dettaglio tutti i diritti dei popoli a determinare il proprio regime politico, come pure a disporre delle proprie ricchezze naturali, ma contiene, d’altra parte, una disposizione finale che non autorizza ad interpretare la risoluzione nel senso di portare attentato alla integrità territoriale o alla unità politica di Stati sovrani e indipendenti che agiscono secondo il diritto internazionale, mettendo così la sordina al diritto delle minoranze a compiere secessioni.
Il processo indicato, mostra la complessità della questione dell’autodeterminazione per tutti coloro che vogliano affrontarla in modo giusto ed equo; non stupisce, quindi, se il magistero ecclesiastico è intervenuto, a diverse riprese, a questo proposito, in particolare Giovanni Paolo II al Comitato contro l’apartheid (1974), alla Corte internazionale di giustizia (1988), davanti al Corpo diplomatico (1988), per il 50° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale (1989), per il 25° anniversario della Dichiarazione del 1948 etc…
Si possono formulare, in conclusione, le seguenti osservazioni: 1) il diritto all’autodeterminazione dei popoli è apparso in circostanze storiche precise, nel momento in cui le popolazioni occidentali hanno fatto dell’individualismo, dell’autonomia della volontà e del riconoscimento della personalità morale ad alcuni raggruppamenti sociali, i principi fondamentali dell’ordine pubblico; diventava allora normale riconoscere, ad ogni popolazione che lo desiderasse, il diritto di disporre di se stessa; 2) l’applicazione del principio non procede senza difficoltà nel sistema occidentale stesso, poiché la nozione di “popolo” manca di precisione; 3) la generalizzazione della espressione nel linguaggio internazionale può condurre ad alcune incomprensioni, se l’ordine pubblico di uno Stato è fondato su una filosofia sociale che non fa del riconoscimento della personalità giuridica dei popoli il principio di una organizzazione giusta della società e, di conseguenza, non condivide la visione occidentale dei diritti dell’uomo; 4) malgrado tutte queste difficoltà, tale principio deve essere ritenuto come principio di riferimento nel diritto internazionale, poiché non appare possibile perseguire lo sviluppo materiale e spirituale dei popoli senza dare loro lo strumento per prendere in mano il proprio destino: ma ciò non è da non intendersi secondo una prospettiva individualista; 5) a questo scopo, i popoli devono porre le loro aspirazioni in relazione al bene comune dell’unità politica alla quale sono legati, come pure al bene generale di una regione e dell’umanità; questo punto diventa di particolare importanza nel momento in cui le migrazioni rompono l’unità culturale dei diversi paesi e in cui il diritto delle minoranze chiede di essere precisato; 6) i popoli devono imparare ad avere ben presente il fatto che ognuno di essi aspira ad “essere di più” (Paolo VI, Populorum progressio, 6), ma che non avendo tutti raggiunto lo stesso grado di sviluppo, e concependone in modo differente le diverse tappe, le relazioni pacifiche fra i popoli sono condizionate dalla ricerca di una mutua comprensione nel dialogo.

Padre Joseph Joblin, sj – (Cronache e Opinioni n. 6 pag.24 - Giugno 2011)

martedì 18 settembre 2012

ANTISPREAD BCE E IL QE3 DELLA FEDERAL RESERVE: DOV’E’ L’ETICA?


“……Perciò, anche è un compito impegnativo essere uomo di valore. Cogliere in ogni cosa [25] il giusto mezzo è un compito impegnativo: per esempio, determinare il centro di un cerchio non è da tutti, ma solo di chi sa. Così, invece, è da tutti ed è facile adirarsi, e donare denaro e fare spese: ma farlo con chi si deve, nella misura giusta, al momento opportuno, con lo scopo e nel modo convenienti, non è più da tutti, né facile. Ed è per questo che farlo bene è cosa rara, degna di lode e [30] bella. Perciò bisogna che chi tende al mezzo prenda innanzi tutto le distanze da ciò che gli è più contrario, come consiglia anche Calipso: «fuori da questo fumo, fuori da questo vortice tieni la nave». Infatti dei due estremi, uno è più colpevole, l’altro meno. Poiché dunque, cogliere il mezzo è cosa estremamente difficile, dobbiamo affidarci, [35] come si dice, alla seconda navigazione e scegliere il minore dei mali:[1109b] ed il miglior modo di farlo sarà questo che noi indichiamo……” Aristotele, Etica Nichomachea II, 9 1109a28-29



Oggi daremo ancora una piccola delusione a coloro che volevano approfondire le caratteristiche dell’ultimo scenario relativo alla scissione dell’euro, che rimandiamo alla prossima settimana perché ritengo più importante parlare invece della manovra QE3 messa in atto da Ben Bernanke della Federal Riserve. Questo approfondimento mi serve a far capire come il comportamento degli uomini che rivestono ruoli di grande responsabilità si rapporta con la propria coscienza attraverso le proprie decisioni. Già avevo tessuto le lodi di Mario Draghi che ha dimostrato di avere chiari i termini etici della sua professione in quanto nonostante le avversità di ogni tipo: monetarie, politiche e psicologiche, ha saputo prendere le decisioni giuste in termini di bene comune. Certo qualcuno potrebbe anche contestarmi questo giudizio, ma credo che bastino due parole per far capire il significato di “giuste decisioni”. Giuste decisioni si riferisce al fatto che un banchiere centrale ha una responsabilità nei confronti della vita economico-finanziaria dei propri concittadini, forse ancora più grande degli uomini politici. Questo perché mentre gli uomini politici assumono decisioni dietro il paravento della propria elezione: “ho il consenso degli elettori che mi hanno votato”, dimenticando a volte che esiste un divieto di mandato imperativo, il Banchiere invece viene incaricato, in un regime di onestà,  grazie alla propria levatura professionale manifestamente riconosciuta. Quindi mentre il politico prende decisioni con finalità strumentali, il banchiere deve prendere decisioni con obiettivi di bene comune. Una seconda motivazione è che Mario Draghi, nonostante le avversità ha saputo tenere la barra del timone senza farsi “tremare le vene ai polsi” perché mentre gli altri “facevano chiacchiere” la sua coscienza professionale aveva presenti due cose: a) la necessità di abbattere, al più presto le correnti speculative; b) che le situazioni monetarie di crisi non erano spontanee, bensì indotte da decisioni strumentali fondate sui meccanismi di mercato. Quindi Mario Draghi non avrebbe potuto fare diversamente: ha bloccato la speculazione con un “effetto annuncio” perentorio di “acquisti illimitati” sul mercato secondario di titoli di stato; ha usato poi i meccanismi di mercato per riequilibrare le distorsioni degli “spread” create dalla speculazione. D’altronde l’unico modo per agire dato ad una Banca centrale è quello di stampare moneta. Lui non potendolo fare ha sapientemente gestito i meccanismi, legislativi e tecnici, creandola in maniera “etica” , anche se fortemente contestato, con l’obiettivo di bene comune. Ha messo in atto n meccanismo che solo un banchiere di livello avrebbe saputo architettare e ora potrà “fare muro” alla speculazione, come si addice ad una Banca Centrale. Comunque le voci contrarie non mancano; ma a chi volesse contestare che 700 miliardi di euro, per battere le correnti speculative future, sono pochi si può rispondere che dopo il pronunciamento della Corte di Karlsruhe, esiste una nuova strategia di sostegno finanziario a tre, come ha detto il neo presidente dell’ESM Klaus Regling nell’incontro di Cernobbio, formato da EFSF/ESM-BCE, quindi se si considera il capitale dell’Efsf di 440 miliardi e gli 80 miliardi di capitale interamente versato dell’ESM la potenza di fuoco della Bce sale a 1.500 miliardi, i quali  con l’aggiunta dei mezzi finanziari messi a disposizione dal FMI, diventano in totale quasi 2.000 miliardi anche se non tutti completamente disponibili perché l’EFSF ha già finanziato la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda per un totale di 192 miliardi sui 440 disponibili impegnando altri 100 miliardi per la situazione spagnola; tuttavia il rimanente ha sempre la potenza di fuoco di un bazooka e Mario Draghi dalla sua ha anche ottenuto il  via libera al programma Omt, (Outright Monetary Transactions) con cui effettuare acquisti illimitati di titoli sovrani dei Paesi che faranno una richiesta formale di aiuto indirizzata ai fondi da parte dello stato potenzialmente in difficoltà attraverso il Memorandum of understanding. Tale programma può essere considerato il deterrente che mancava alla BCE per bloccare qualsiasi velleità speculativa. I mercati finanziari lo hanno perfettamente capito e si sono guardati bene dal testare la determinazione della Banca centrale e dal 6 settembre hanno reagito con grande euforia alle decisioni della Bce. Tale richiesta di condizionalità è l’altra componente etica, che impegna la responsabilità degli stati a mantenere gli impegni. Non dimentichiamo che l’ESM è molto coattivo. E, come ho spiegato nel mio post del 18 giugno scorso in merito al punto 5 dei considerando del trattato dell’ESM che rende operativa  la clausola dell’accogliendo del TSCG, a cui rimando per non appesantire il discorso, si presenta un po’ pericoloso e conflittuale per i futuri equilibri tra i Paesi dell’UE. Ma ciò non toglie che vada rispettato. Proprio grazie a queste previsioni non potrà accadere che un Paese non rispetti gli impegni e pertanto possa vanificare l’operato della BCE. La liquidità disponibile in mano a Draghi è pienamente adeguata a riportare l’equilibrio tra gli spread, checché ne dicano giornalisti in termini di “repressione finanziaria” come fa Maximilian Cellino sul sole 24 ore di domenica 9 settembre, nell’articolo “Quel costo occulto della repressione finanziaria”. Da sempre si sa che i tassi di interesse, e i debiti vengono manipolati; da sempre essi sono stati “indirizzati” grazie all’intervento delle autorità monetarie. Lo scetticismo evidenziato, e le argomentazioni che paventano il problema dell’inflazione in un momento come questo… sanno quanto meno di parte….le teorie vanno sempre verificate e la congiuntura attuale non può essere basata su assunti teorici che si possono trovare su qualche blog che sponsorizza studi di economisti che considerano situazioni del passato. Oggi c’è una situazione che porta alla deflazione mondiale e purtroppo a meno che non accada una rivoluzione “copernicana” in campo economico-finanziario, non possiamo rischiare di far esplodere una congiuntura che sta asfissiando sempre di più. Queste misure sono drastiche e di emergenza, tentano di gestire fenomeni mai esistiti in passato, tanto dai monetaristi quanto dagli attuali premi nobel. Ne cito solo 3 per far capire: 1) l’anomalia di una BCE banca centrale zoppa di una Unione Monetaria ancora in divenire che non ha una struttura politica unitaria; 2) l’esplosione di una economia finanziaria che solo per i derivati ammonta a più di 600 mila miliardi di dollari usa; 3) il dumping sociale della Cina comun-capitalista in una realtà globalizzata. Cerchiamo dunque di essere seri e razionali, usando il senso critico in maniera adeguata e soprattutto senza cercare l’utopia della visione o lo svilimento dell’altro semplicemente perché ha una posizione che avversiamo, perché non abbiamo la capacità di comprenderla.   
La mia esperienza sui mercati internazionali, mi lascia tranquillamente affermare che la determinazione di una banca centrale non trova ostacoli al raggiungimento degli obiettivi di politica monetaria. Ovviamente nel breve periodo, perché nel lungo la responsabilità è della politica. Altro che repressione! E questo mi permette di fare il paragone con la decisione presa dal Governatore della Federal Reserve Ben Bernanke di lanciare finalmente il tanto atteso Qe3.  Ma che significa? In sostanza e in breve esattamente la stessa cosa che ha fatto Mario Draghi, ma con strumenti diversi e propri di una vera banca centrale. Il Quantitative easing significa la messa a disposizione del sistema bancario e finanziario di liquidità a tassi di interesse contenuti. Come tutti ormai sappiamo, l’economia si muove sulla base di investimenti. Per invogliare ad investire occorre dare a chi vuole non solo la possibilità di indebitarsi, ma anche di farlo a buon mercato. Quindi la Federal Reserve proprio per incentivare l’economia, ha ripetuto per la terza volta ciò che in un momento di stallo, come si presentava la congiuntura alla fine del 2008 ritenne opportuno di effettuare: il primo QE1 annunciato il 18 marzo 2009, immettendo liquidità sul mercato tramite acquisto di titoli tossici e bond collegati al mercato dei subprime e titoli collegati ai mutui ipotecari (Mortgage bond Securities - Mbs). Tale decisione che aveva dato un impulso molto forte alla borsa, portò l’indice S&P500 a guadagnare nel giro di un anno circa il 53%. La stessa azione venne ripetuta, una seconda volta da Bernanke che il 3 novembre del 2010 annunciò il QE2 inondando i mercati di ulteriore liquidità, sempre a buon mercato. Ciò permise allo S&P500  di aumentare nei successivi sei mesi di circa il 14%. Ora il 13 settembre scorso il Governatore della Fed ha annunciato il QE3 che prevede l’acquisto di asset di vario genere comprendente titoli di stato e di titoli MBS per 40 miliardi di dollari al mese unitamente ad una azione di Twist che significa effettuare un cambio di scadenza di portafoglio, vale a dire la vendita di titoli di stato a breve termine contro l’acquisto concomitante di titoli a lungo termine per il medesimo importo. In questo modo sul versante della crescita economica, con il Qe3 vi sarà l’incentivo di una maggiore liquidità disponibile per gli investimenti derivante dall’acquisto di titoli in maniera incondizionata e quindi senza la sterilizzazione. Ciò significa che la Fed immette liquidità senza toglierla da un’altra parte. Vale a dire che non sono acquisti a fronte di un cosiddetto pronti contro termine (Repurchase agreement) che è lo strumento per immettere liquidità temporanea nel sistema, ma è un vero e proprio acquisto diretto che trasferisce i titoli, illiquidi e immobilizzati dai portafogli delle banche nel portafoglio della Fed ridando liquidità al mercato. Invece con l’azione di Twist, la Fed tende a tenere bassi i tassi di interesse in quanto vendendo sul mercato secondario la breve scadenza ne abbassa il tasso che invece verrebbe ad aumentare sulla lunga scadenza dove opera gli acquisti. Il mercato quindi, può fruire di bassi tassi di interesse in virtù dei quali si dovrebbe poter allentare la crisi consentendo una ripresa degli investimenti e con ciò l’atteso aumento dell’occupazione. L’effetto annuncio è stato in questo caso molto importante perché oltre agli importi mensili di elevato livello (circa 85 miliardi di dollari al mese) il Governatore ha anche annunciato, proprio come ha fatto Draghi, che si protrarranno a tempo indeterminato fino a che “la crescita non sarà migliorata a sufficienza” unitamente al fatto che non procederà all’aumento dei tassi di interesse non solo come aveva detto per tutto il 2013, bensì fino alla metà del 2015 e lasciando intendere anche più se sarà necessario. Concludendo quindi vorrei sottolineare che anche in queste decisioni c’è una visione etica positiva, da parte di Bernanke in quanto al legalismo di coloro che pongono la propria miopia dietro il paravento (dei cavilli legali, visione di spauracchi attualmente inesistenti, nella prospettiva indicata come l’inflazione) della semplice etica negativa, contrappone con coraggio decisioni per il bene comune che, come quelle di Mario Draghi, stanno cambiando in maniera sistemica, il corso della storia. Ricordiamo ciò che diceva J.M. Keynes: ciò che conta è il breve periodo perché nel lungo saremo tutti morti! E allora ben vengano questi interventi!