Si
parla molto sia in Italia che in Europa e in tutto il mondo occidentale di
“rigore”, in termini contabili e di “crescita”, in termini economici. Si vede
nella “equità sociale” quasi una terza tappa, mentre dovrebbe essere
trasversale e contestuale alle altre due dimensioni, in profonda, organica,
reciproca interazione. Diversamente, i costi umani, personali e sociali,
potrebbero diventare sempre più pesanti, se non insostenibili!
Alba Dini Martino
Tutti i Paesi europei sono oggi nel caos; tre parole ritornano
continuamente nelle conversazioni e nelle diverse prese di posizione: rigore,
crescita ed equità sociale. Tentiamo di portare qualche chiarezza in questa confusione.
Una
delle cause all’origine della crisi è stata identificata: le banche e le
istituzioni di credito sono state indicate all’opinione pubblica come le grandi
responsabili della situazione attuale; tuttavia esse sono essenziali per far
marciare l’economia e hanno svolto un ruolo molto importante nella prosperità
che ha conosciuto l’Occidente. Esse sono infatti essenziali a far marciare
l’economia; ricevendo i depositi dei privati e dei grandi fondi finanziari,
esse accordano ad altri dei crediti che
permettono di iniziare delle attività o di creare delle imprese e,
quindi, di distribuire dei salari; esse consentono anche a dei privati di poter
migliorare le proprie condizioni di vita, (acquisto di un’auto, di un
frigorifero, di un alloggio etc…); nello stesso modo, consentono agli Stati di
organizzare la vita comune o di lanciare dei progetti di interesse pubblico. Il
sistema funziona fino a quando coloro che hanno avuto dei prestiti sono in
grado di rimborsare i debiti che hanno contratto. Ma tutti gli attori
economici, gli Stati come anche i privati, hanno ceduto alla tentazione del denaro facile. Le
banche hanno corrisposto ed è in ciò che si situa la loro responsabilità,
perché è venuto il momento in cui sia i privati che gli Stati si sono trovati
nella incapacità di rimborsare i loro debiti. Due vie erano possibili per
uscire da questa situazione: lasciare che le banche fallissero, ma allora i
risparmiatori avrebbero perso le loro economie e il mondo sarebbe entrato in
un’era di povertà; oppure che gli Stati cercassero di evitare una tale via di
uscita, imponendo alle banche di cessare di dare crediti non garantiti e
riducendo le spese inutili; una parola designa questo orientamento: rigore; ma
ciò è all’origine di un rallentamento dell’economia e quindi della contrazione
della occupazione, come anche della massa salariale. Ma queste politiche hanno
un costo umano.
Le
categorie di cittadini che sono vittime del rigore sono principalmente le
donne, che devono far vivere le loro famiglie con risorse ridotte, i
disoccupati di cui una grande parte è formata da giovani che arrivano su un
mercato del lavoro in cui non trovano opportunità e i pensionati, le cui
pensioni, spesso miserevoli, non seguono il costo della vita. Anche i movimenti
sociali chiedono ai governi di dare ossigeno alle popolazioni vittime del rigore, rilanciando
la crescita attraverso la concessione di crediti per contenere la
disoccupazione e distribuire risorse ai più sfavoriti; ma i governi resistono,
perché in questo c’è il rischio di rilanciare l’inflazione.
Tutte
le politiche si situano attualmente fra due poli: rigore e crescita; il primo
crea le basi per una economia sana ;
il secondo ricorda che l’economia è a servizio dell’uomo. È qui che interviene
il concetto di equità sociale che può essere così definito: la concezione che cerca
di conciliare le esigenze contrarie del
rigore e della crescita, in vista di adottare delle misure a beneficio di
coloro che il rigore condannerebbe alla povertà, anzi alla miseria e alla
marginalità sociale. Come è indicato anche in un rapporto delle Nazioni Unite:
“l’equità sociale consiste nell’offrire condizioni di vita giuste ed eque per
tutti, uomini o donne, al fine che essi possano soddisfare le loro necessità
fondamentali, mangiare, bere, avere un alloggio dove ripararsi, lavorare,
andare a scuola ...”. Si tratta di un “principio morale” che richiede di
ridurre la povertà e di favorire il progresso materiale e lo sviluppo
spirituale” di “tutti gli uomini e di tutto l’uomo”, (Paolo VI, Populorum
progressio, 14). Esso costituisce un asse etico indispensabile da prendere in
considerazione se vogliamo salvaguardare, in questo tempo di crisi, le
acquisizioni personaliste della civiltà europea. Il richiamo alla nozione di
equità permette di vedere i punti sui quali un miglioramento è auspicabile, necessario
o indispensabile per attivare la società in uno sforzo solidale, dando
contenuto alla nozione stessa di giustizia sociale. La nostra morale sociale
non può tollerare che categorie intere della popolazione siano emarginate dalla
vita della comunità, a causa della mancanza di educazione/formazione, della
sotto-occupazione o della disoccupazione.
Giunti
a questo punto della nostra riflessione,
un esame di coscienza ci è necessario. La messa in opera di una politica
equa richiede dei sacrifici da parte di tutti, in particolare da parte di
coloro che beneficiano di più del
sistema attuale. Ora, è necessario riconoscere che se la nostra civiltà
mediterranea ha sviluppato in ciascuno di noi un senso acuto della persona, che
si manifesta tanto nei comportamenti individuali come in quelli di gruppo come
la famiglia, ci è spesso difficile porci in una prospettiva globale, dando la
preferenza all’interesse generale, piuttosto che a rivendicazioni particolari,
spesso corporative. La nozione di equità sociale ci ricorda che è legittimo
difendere i nostri interessi particolari, ma che anche tutta la società deve
ripartire verso una maggiore prosperità. Ecco perché una mentalità
universalista, segnata dalla carità, chiede agli uni e agli altri di riflettere
in comune nelle organizzazioni ad hoc sui sacrifici che la società deve imporsi
in modo solidale; le associazioni devono assumere il loro compito etico di
educazione alla carità e alla solidarietà.
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