La giustizia non può funzionare se il
rapporto
tra i cittadini e le regole è malato, sofferto,
segnato
dall’incomunicabilità.
La giustizia non può funzionare se i cittadini
non
comprendono il perché delle regole.
(Gherardo
Colombo)
Credo sia molto importante stabilire punti fermi sul
concetto di “regole” proprio in un momento come quello attuale, in cui le
regole sono sempre più disattese ad ogni livello.
Ricordo poi che questa riflessione vuole essere un approfondimento
della visione etica delle regole e pertanto il ragionamento da fare è un
pochino complesso ma utile per una corretta ubicazione del pensiero nella
nozione di società.
Quando parliamo di regole difficilmente ci soffermiamo sul
loro significato intrinseco e sull’impatto che le stesse possano avere nella
nostra mente e nei nostri comportamenti. Di solito le regole si accettano
perché sono imposte, o si accettano perché non se ne può fare a meno.
L’esistenza delle regole è necessaria per permettere alle
persone di potersi incontrare non solo fisicamente (regola dell’orario) ma
anche concettualmente (la regola di parlare una lingua comune). Va da sé che
ogni regola comporta un beneficio insito nel suo rispetto, rappresentato dal
corretto risultato ottenuto in virtù del corrispondente comportamento, oppure
una sanzione per il suo mancato rispetto. Detto ciò possiamo allora comprendere
in maniera più chiara che la regola, una volta formulata e riconosciuta come
tale, non richiede impegno personale in termini di finalizzazione, ma il
semplice rispetto.
Questo ragionamento così argomentato, porta gradualmente a
comprendere che le regole non hanno bisogno di essere comprese: le regole
devono essere conosciute e rispettate. Tale assunto però, ad una critica più
stringente rivela che l’esistenza delle regole non comporta una
responsabilizzazione personale in funzione di esse, ma solo una onesta
obbedienza.
L’esperienza infatti ci può senz’altro permettere di dire,
che non mancano le regole, bensì manca la coscienza del rispetto delle regole.
Ciò che guida i nostri comportamenti, nel rispetto delle regole, può essere
individuato in due posizioni definite, la prima facente riferimento alla
sanzione e quindi alla paura di perdere un beneficio (la libertà quando la pena
è il carcere) la seconda facente riferimento alla consapevolezza delle
conseguenze derivanti dal mancato rispetto. Il discorso appare più chiaro se
poi distinguiamo i livelli di discernimento ed i piani su cui insistono tali
strutture concettuali. Le regole attengono a diversi piani quale il piano
organizzativo ed il piano esistenziale. Su piano organizzativo si prospetta una
distinzione dei livelli di discernimento che assumono connotazioni diverse,
vale a dire una connotazione legale, una deontologica ed infine una di
compliance. Sul piano esistenziale
invece il livello del discernimento si riferisce ad un solo principio che si
distingue in termini di etica normativa o etica pura ed etica applicata.
Proviamo a comprendere meglio. Sul piano organizzativo
troviamo quindi tre livelli: quello legale delle regole necessarie per la
corretta convivenza delle persone tra di loro, quello deontologico, necessario
a dimostrare la coerenza di una categoria professionale che sceglie regole
comportamentali onde evitare conflitti all’interno della categoria stessa e che
quindi non assumono carattere esterno se non a fini esclusivamente
pubblicitari. Infine la compliance, come
regola di uniformarsi alle regole riconosciute. Si evince pertanto che i punti di riferimento da
considerare sono: la norma, la sua interpretazione e la corrispondente
sanzione. Non credo che ci sia ancora qualcuno che non si renda conto di quanto
tale struttura sia manifestamente imperfetta. Infatti basta pensare che le
norme possono essere ad personam, che
di interpretazioni della norma ce ne possono essere diverse e di natura
soggettiva: grammaticale, logica,
analogica, autentica, giurisdizionale ecc. Infine la sanzione o la pena non
è mai certa perché ben sappiamo che esiste
la prescrizione, esistono lungaggini strumentali, esistono buoni avvocati, esiste
la possibilità di corrompere i giudici ecc.. Sul piano organizzativo il
sistema pertanto non dà certezze. Per contro sul piano esistenziale i punti di
riferimento sono rappresentati dall’etica normativa, come conoscenza del bene e dall’etica applicata, vale a dire le alternative date a ciascuno se morali di
porle a confronto in una prospettiva progettuale finalizzata al raggiungimento
del bene comune. Quindi a livello etico non esistono le imperfezioni che
troviamo sul piano organizzativo: non esiste norma formulata in base ad accordi
o compromessi, ma esiste soltanto il principio del bene; non esiste una serie
di interpretazioni, ma ne esiste una sola: quella della coscienza avvertita.
Così come la sanzione, non solo non può
essere sfuggita, ma è emessa da un giudizio immediato ed inappellabile della
propria coscienza. La pena si chiama rimorso. Qualcosa che pur se accantonato è
una gestalt che rimane aperta e che
prima o poi, magari a distanza di anni è destinata ad esplodere manifestandosi
in gesti inconsulti a volte di inspiegabile violenza proprio verso gli affetti
più cari di colui che accantonandola, pensando di farla franca, non ha cercato
invece una rilegittimazione della propria umanità attraverso la presa d’atto
delle proprie responsabilità, vale a dire riparando al male perpetrato.
Ma queste riflessioni non vengono proposte, né tantomeno
insegnate nelle scuole o nelle università. Ciò che viene insegnato è la sola
esistenza del livello legale e quindi del piano organizzativo che richiede una
sola attitudine: l’obbedienza. Ma come ben si sa l’obbedienza non crea
coscienza. L’obbedienza poi quando è imposta dalla paura della sanzione lascia
spazio a reconditi istinti repressi. L’obbedienza non crea senso di
responsabilità. Ecco quindi il punto di debolezza del sistema organizzativo: il
piano legale non crea responsabilità perché non coinvolge le coscienze nella
applicazione delle regole. L’etica invece, insistendo sul piano esistenziale, richiede
una coscienza del rispetto delle regole perché responsabilizza l’uomo sulla
base delle conseguenze delle proprie azioni. Il ragionamento sottostante è il
seguente: L’uomo ha una dignità che gli è propria unicamente perché è un essere
umano, tale dignità risiede nella sua personalità, la personalità è provvista
di libertà, tale libertà si serve della razionalità per esprimere giudizi su
oggetti definiti, tali giudizi comportano delle decisioni che coinvolgono la
volontà e, che a loro volta si manifestano in azioni le cui conseguenze
implicano responsabilità. L’etica applicata risponde proprio alle domande: di
che cosa bisogna avere responsabilità, chi è responsabile, verso chi si ha
responsabilità? Ecco come si forma la coscienza del rispetto delle regole!
Ma come si crea una coscienza del rispetto delle regole?
Come si può pensare di cambiare il sistema quando aprendo il quotidiano “La Repubblica”
di sabato 17 marzo, in prima pagina leggiamo: Polemica sulla concussione, in seconda pagina Il premier accelera sulla corruzione…, in terza pagina Processo disintegrato se cambia quella norma…
In quarta pagina Tangenti proquota a Lega
e a Forza Italia, in sesta pagina Indagato
il Governatore Errani fondi per un milione di euro alla coop presieduta dal
fratello e in fondo pagina Rutelli:
Lusi sta inquinando l’inchiesta i soldi all’Api? Solo una partita di giro,
in settima pagina Pesce anche nella vasca
da bagno, era una valanga dovevo restituirlo alla nona pagina Posti barca scontati in cambio di appalti
e poco più sotto L’inchiesta Gamberale
arriva a Milano accordi segreti sulla vendita della SEA. Come creare la
coscienza? Come combattere corruzione concussione e violenza?