etica

"... Non vogliate negar l'esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza". (Dante, Inferno canto XXVI, 116-120).


L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori

OLTRE LE FORZATURE.  ANALISI E PROPOSTE
Piergiovanni Alleva* - Giovanni Naccari**

1.  La funzione  consolidata.  2.  La strumentalizzazione  della  crisi. 3. Tra  disinvolture  ed equivoci. 4.  I contenuti attuali, oltre le forzature. 5. Le critiche alle proposte di manomissione. 6. Il mantenimento della norma. 7. L’ambito dell’estensione. 8. La manutenzione nel processo. 9. La manutenzione nel welfare.

1. LA FUNZIONE CONSOLIDATA.
Nella cultura sindacale e in quella giuridica progressista e garantista si considera l’art.18 dello Statuto dei lavoratori come  l’”architrave”di  tutti  i  diritti del lavoro, in quanto ne consente il libero esercizio sottraendo il lavoratore al ricatto occupazionale e al licenziamento arbitrario; si evidenzia la sua importante funzione dissuasiva rispetto alle eventuali ma possibili prevaricazioni padronali; si ritiene che, in uno Stato di diritto e specie in quello governato dalla nostra Costituzione repubblicana, con i suoi principi garantisti ed emancipatori nei confronti della parte debole del rapporto, la norma in questione rappresenti un  equo contemperamento tra la esigenza di tutelare la dignità e i diritti del lavoratore e contemporaneamente l’esigenza di garantire al datore la possibilità di licenziare quando sussista un giustificato motivo.

Nelle culture giuridiche, istituzionali e politiche che sono state alla base della condivisione della nostra Carta fondamentale e del nostro vivere civile, ma anche alla base prevalente dei risultati e dei consensi degli articolati modelli europei da Bismarck al “modello  sociale  europeo”, i dettati del “libero mercato” non sono stati esclusivi, e, anche nelle torsioni liberiste assunte dopo J. Delors dal percorso dell’Unione Europea, si è cercato di garantire la presenza di diritti sociali ad es. con l’approvazione della normativa contenuta nella Carta di Nizza.

Quando ci si è allontanati da questi modelli per sposare il modello liberista, i risultati complessivi, a nostro avviso, già nel medio periodo, non sono stati positivi. Tale assunto ha trovato chiara conferma quando si è voluto interpretare e vivere la globalizzazione in prevalente chiave liberista, mentre i Paesi europei che hanno subito meno le conseguenze della crisi sono stati proprio quelli che, pur con diverse ispirazioni politiche, non hanno trascurato i punti fondamentali del modello sociale europeo(es. Germania, Finlandia).

La funzione consolidata dell’art. 18 e il contesto in cui si inquadra sono, a nostro avviso, le ragioni che hanno garantito, rispetto alle proposte di manomissione, la sua salvaguardia nel tempo, e ancor oggi sono da tenere presenti e da valorizzare nel dibattito sulla sua sorte.

2. LA STRUMENTALIZZAZIONE DELLA CRISI.
Tuttavia la cultura liberista, che ha imperversato per oltre venti anni, viene agitata ancor oggi davanti alla grave crisi finanziaria, economica e sociale, da lei stessa provocata, e viene offerta come possibile, sebbene paradossale, rimedio.

In particolare, relativamente alla pur necessaria flessibilità nel mercato del lavoro, è ormai noto come il proliferare “in entrata”di tipologie contrattuali offerte ai datori e fatte passare come “opportunità” per i lavoratori, specie giovani (legge n.30, dlgs n. 276) abbia trasformato la flessibilità in un mezzo di precarizzazione della vita e del destino di questi ultimi, senza peraltro risolvere le aspettative di professionalità delle imprese.

Ora si vuole completare questa operazione, anche sul versante dell’”uscita”, con la manomissione dell’”architrave” dei diritti e cioè l’art.18.


3. TRA DISINVOLTURE ED EQUIVOCI.
Inevitabilmente si è sviluppato un dibattito ampio, diversamente articolato per posizioni, sedi, livelli, dove si è chiesta un’apertura al confronto, la propensione ad affiancare alla critica una disponibilità propositiva, atteggiamento che anche noi, pur posizionandoci tra gli estimatori della funzione finora esercitata dall’art. 18, pensiamo di assumere.

Tuttavia, non possiamo sottacere come, su un tema complesso e delicato che riguarda la sorte di lavoratori, imprenditori, aziende, sono state avanzate, specie da parte degli “abolizionisti”, affermazioni alquanto  ”disinvolte”, che, quando vengono formulate da esperti della materia, suscitano quanto meno nutrite perplessità, anche perché non si può escludere la loro competenza, né si vuole escludere la loro buona fede.

Ma anche nelle affermazioni di una parte di coloro che vorrebbero mantenere le tutele, ci sembra siano presenti margini di  inconsapevolezza o di  equivoco sui termini del problema, tanto da far prevalere nelle loro tesi una logica di apparente buon senso che non sempre ha riscontro nella realtà.

Tra gli argomenti utilizzati con alquanta confusione dagli “abolizionisti”, campeggia quello secondo il quale “ce lo chiede l’Europa”.In realtà l’art.153.1.d del Trattato affida alla UE il potere di dettare regole comuni in materia di licenziamenti individuali, ma è rimasto inattuato anche perché condizionato alla regola dell’unanimità.Né detto potere può essere assunto dal presidente della Bce, autore della nota lettera del 5.8.2011. Più in generale occorrere distinguere, nel mercato del lavoro come nelle politiche fiscali, di bilancio, ecc., tra fini da raggiungere (es. la flessibilità in uscita), a cui ciascun Paese dell’Unione potrebbe essere giuridicamente obbligato, e mezzi necessari per conseguirli, che invece ciascun Paese deve essere libero di scegliere. La questione, quindi, si deve spostare correttamente sul merito e cioè sulla funzionalità della norma a perseguire quel contemperamento tra esigenze di stabilità del lavoratore ed esigenze di flessibilità del datore, per cui è stata varata sulla base del complessivo ordinamento italiano, ma che trova conforto anche, come abbiamo precedentemente accennato, nelle normative europee.Comunque un riconoscimento sulla funzionalità della nostra normativa a garantire la flessibilità in uscita è venuta, all’inizio del corrente anno, dall’Ocse che ha elaborato indici sulla “rigidità in uscita”. Dalla collocazione dell’Italia nella relativa graduatoria si ricava che,  se  il  nostro  paese  dovesse  adeguarsi  agli standard europei, dovrebbe rendere più difficili e non più facili i licenziamenti.

Altro cavallo di   battaglia   degli   “abolizionisti”   è l’inidoneità   dell’art.   18   a   favorire   la “crescita”economica e il suo essere anzi un freno alla canalizzazione degli investimenti e quindi anche all’allargamento della base occupazionale, in particolare per i giovani. Questo argomento, da una parte, si pone sulla scia dell’errore strategico, rivelatosi ampiamente perdente, di perseguire la competitività con la compressione dei diritti, oltre ogni ragionevole sacrificio della classe lavoratrice e, dall’altra, è smentito da un’ampia parte della classe imprenditoriale che riconosce  altre  cause  nei  freni  allo  sviluppo: carenze infrastrutturali, alto costo dell’energia, mancanza di supporti alle produzioni strategiche, innovative ed ecologicamente compatibili, stretta creditizia, ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, ingerenza della criminalità organizzata, corruzione, lunghezza dei processi, ecc. L’allargamento dell’occupazione anche per i giovani e per le fasce discriminate deriva principalmente da politiche di “creazione”  del  lavoro  più che  dalla  sua “flessibilizzazione”  (peraltro  già  anche  troppo  assicurata). E l’uguaglianza  dei  diritti  tra  “precari”  e  “stabilizzati  (?)”  è  sempre  storicamente  venuta  da  politiche “inclusive” nei confronti dei primi e non di abbassamento delle tutele dei secondi; queste ultime politiche mirano demagogicamente e opportunisticamente a indebolire il complessivo fronte del lavoro comunque dipendente.

Il Governo, pertanto, più che attardarsi (per migliorare internamente e internazionalmente la sua mera immagine “decisionista”) a riassettare i rapporti tra impresa e lavoro a danno di quest’ultimo, meglio farebbe a  ridimensionare  la”  rendita” e favore il complesso dei “settori produttivi” imprenditoriali e lavorativi con politiche di ricerca e di investimento espansive ed ecologicamente compatibili. Questo contribuirebbe a risolvere il problema (interno e internazionale –reale e non di immagine-) del debito pubblico, molto più dell’art. 18 che rispetto a quel problema risulta irrilevante.
È sul piano giuridico, poi, che si coagulano molte delle disinvolture e degli equivoci.


4. I CONTENUTI ATTUALI DELL’ART. 18, OLTRE LE FORZATURE.
Per dare un contributo di chiarezza sui termini del problema, di critica alle proposte in campo, e di nuova elaborazione, è necessario esporre il regime vigente dei licenziamenti.

Il punto di partenza è che  ogni licenziamento deve essere fornito di una  motivazione, la quale può riguardare:

motivi soggettivi, cioè fatti riferibili al lavoratore motivi oggettivi, cioè fatti riferibili all’impresa.
Il recesso immotivato non è più consentito, se non nel lavoro domestico.

Principio altrettanto fondamentale perché il licenziamento sia legittimo(art.5 l.604/1996) è che i fatti costituenti la motivazione, sia di tipo soggettivo che di tipo oggettivo, devono essere comprovati dal datore di lavoro.

In particolare:

A) Licenziamenti per motivi soggettivi

I motivi soggettivi sono costituiti: da una colpa del lavoratore,

o grave, e si parla allora di „giustificato motivo” soggettivo,

o addirittura gravissima, e si parla allora di „giusta causa”. La differenza è che in quest’ultimo caso il lavoratore licenziato non ha neanche diritto al preavviso.

Cumulativamente, si può parlare di licenziamenti  disciplinari e la normativa relativa si applica nelle aziende con più di 16 dipendenti

In questi licenziamenti per motivi soggettivi, e cioè per colpa del lavoratore, il licenziamento altro non è che una punizione; il che implica razionalmente che se il comportamento colpevole non esiste o il datore di lavoro non lo comprova, il licenziamento è illegittimo e va eliminato.

Ma va eliminato anche se vi è  sproporzione tra colpa e punizione: ad esempio un solo giorno di assenza ingiustificata non può comportare la pena del licenziamento (ma una sanzione disciplinare minore: multa o sospensione). Quindi il controllo giudiziario qui è  di  merito, ossia si esercita non solo sulla sussistenza, ma anche sulla gravità del comportamento colpevole.

B) Licenziamento per motivi oggettivi

È il licenziamento dovuto a ragioni che riguardano l’andamento ed il governo dell’impresa cioè, per usare le parole dell’art. 3 L. 604/66, „ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

La materia è normativamente suddivisa in due discipline diverse secondo un discutibile  discrimine solo quantitativo:

- se il datore di lavoro licenzia, per motivi aziendali e non disciplinari, fino a 5 lavoratori, allora si tratta di c.d. „licenziamenti individuali per motivo oggettivo”, cui si applicano certe regole;

- mentre se i licenziamenti sono più di 5, diviene necessaria (ed obbligatoria anche ai fini della legittimità) la procedura sindacale di licenziamento collettivo.

Di conseguenza bisogna procedere ad una illustrazione separata:

a) Licenziamento individuale per motivo oggettivo

È da ricordare che il licenziamento individuale per motivo oggettivo è anch’esso un licenziamento che deve essere giustificato, ossia ancorato alla sussistenza di un fatto estraneo alla volontà pura e semplice del datore  di  lavoro:  una  crisi  aziendale  o  di  mercato,  una  necessità  di  riorganizzazione  causata  da obsolescenza di posto di lavoro o tecniche produttive, ecc.

È un punto decisivo, perché se non vi fosse questo „ancoraggio esterno”, ossia se per motivo oggettivo dovessimo intendere qualsiasi esigenza ritenuta valida dall’imprenditore, allora saremmo di fronte ad un licenziamento libero.

Può stupire, ma proprio questa è la “torsione” in sen so liberista subita in giurisprudenza dalla norma dell'art. 3 L. n. 604/66, all'insegna del feticcio  dell'insindacabilità delle scelte imprenditoriali. Ragion per la quale, al contrario di quanto sostengono con la massima disinvoltura gli “abolizionisti” dell'art 18, oggi il licenziamento per motivi aziendali è diventato praticamente libero. Basta qualsiasi riforma organizzativa anche mirata ad un maggior profitto da parte di una impresa assolutamente fiorente ed attiva, perché il licenziamento sia considerato giustificato dalla maggioranza dei giudici italiani.

Non si tratta di applicare la reintegra ad un rapporto di lavoro o la mera indenizzazione economica: il licenziamento è legittimo punto e basta, ed il lavoratore licenziato non ha diritto a nulla.

Tuttavia esiste in teoria un  limite  a questa conclusione paradossale. È il c.d.  “controllo di legittimità” da parte del giudice, concettualmente opposto al “controllo di merito” di cui abbiamo parlato a proposito dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo.

Significa che il giudice può controllare se esiste un  minimo  di  ragione  economico-organizzativa, oggettiva ed esterna alla mera discrezionalità dei datori di lavoro, che giustifichi il licenziamento, senza possibilità, però, di valutare il grado o la gravità della stessa. (Per es., se l'impresa ha difficoltà economiche il giudice non potrebbe indagare e decidere quanto esse debbano essere gravi per giustificare il licenziamento, ma nel caso che il datore abbia giustificato formalmente il licenziamento con difficoltà economiche e si scopra invece che di esse non vi è traccia perché vi è un consolante attivo di bilancio, il licenziamento potrebbe essere dichiarato illegittimo e annullato).

Pertanto, attualmente l'unico limite legale al licenziamento per motivo oggettivo è la loro evidente pretestuosità, l'insanabile contrasto tra ciò che lo stesso datore ha dichiarato come motivo soggettivo nella lettera di licenziamento, e la realtà verificabile. Oppure la contraddittorietà tra premessa e conseguenza (per es. se il datore di lavoro dopo avere dichiarato una eccedenza di lavoro operaio, licenziasse un impiegato, ovvero, se dopo aver licenziato per asserita abolizione di una posizione lavorativa, assumesse un nuovo lavoratore in quella posizione mantenendola in essere).

Si tratta, quindi, di un controllo molto “leggero” al limite del ritorno al puro e semplice arbitrio datoriale e per questo le polemiche sul licenziamento per motivo oggettivo sono o sbagliate o strumentali.

b) Licenziamenti collettivi

Se i licenziamenti per ragioni riguardanti l'impresa sono più di 5, i licenziamenti sono legittimi solo al termine di una procedura di confronto sindacale, prevista dall'art.4 ss. della L.223/91.

Anche qui la disciplina legale ha subito nella interpretazione giurisprudenziale  una torsione in senso liberista, perché per il legislatore del 1991 i licenziamenti collettivi dovevano in realtà essere giustificati dalle stesse ragioni che legittimano il ricorso alla C.I.G. straordinaria, ma la giurisprudenza ha stravolto la previsione legale facendo passare la c.d. “teoria acausale” del licenziamento collettivo. In altre parole, le ragioni per cui il datore vuole ridurre il personale sono insindacabili da parte del giudice, e l'unica difesa per i lavoratori è nella procedura sindacale, in un accentuato  formalismo e nel rispetto del  criterio di scelta (anzianità, carico familiare) dei lavoratori da licenziare.

Certamente, se l'impresa viola anche le regole formali e procedurali o i criteri di scelta, i licenziamenti sono illegittimi e si applica anche l'art. 18, ma ciò non toglie che la decisione di ridurre il personale sia, per la giurisprudenza maggioritaria, in sé, libera ed insindacabile. Non c'è più, dunque, neanche quel minimo di sindacabilità che resta per i licenziamenti individuali per motivo oggettivo.

Il licenziamento collettivo, insomma, purché siano rispettati forme e procedure ed i criteri di scelta dei licenziandi, può addirittura essere pretestuoso, senza diventare per questo illegittimo.

Non era, ovviamente, questa la volontà del legislatore, ma è l'interpretazione stravolta del neo- liberismo che ha ispirato i giudici.

La  materia  dei  licenziamenti  per  motivi  aziendali  andrebbe,  dunque,  rivista ma  non  nel  senso propugnato dagli “abolizionisti” dell'art. 18.

NB) Il licenziamento discriminatorio

È necessario soffermarsi sulla nozione di licenziamento “discriminatorio” che è spesso fonte di confusione e perplessità anche tra i sostenitori della tutela contro i licenziamenti arbitrari, confusione sfruttata ed alimentata dagli “abolizionisti”.

Il “licenziamento discriminatorio”è quello motivato, al di là delle ragioni formalmente addotte, da avversione per certe qualità della persona del lavoratore che viene licenziato: razza, sesso, religione, idee politiche e sindacali, età avanzata, handicap, ecc. Si tratta di una  difformità  tra  ragioni  formalmente addotte dal datore di lavoro a motivazione del licenziamento, ossia giustificato motivo oggettivo o soggettivo, e ragioni “vere”, ma nascoste ed inconfessabili perché anticostituzionali.

Il datore di lavoro deve, come regola principale, provare il motivo oggettivo o soggettivo da lui enunziato e se non ci riesce il licenziamento viene già per questo annullato.

Altra cosa è che il lavoratore possa  andare oltre e provare lui che non solo non vi era un sufficiente motivo giustificativo, ma addirittura che esisteva un motivo illecito, discriminatorio. Se il lavoratore riesce a dare tale dimostrazione, rende il licenziamento addirittura  nullo (che teoricamente è un vizio ancore più grave dell'annullabilità, anche se poi in pratica tutto rientra nella sanzione dell'art. 18). Ma si tratta di una dimostrazione estremamente difficile, come è certificato dalle statistiche degli esiti delle vertenze in cui è stata tentata.

Siamo davanti a due oneri di prova diversi:

- il datore deve provare la effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo o soggettivo addotto e se non vi riesce, già per questo il licenziamento viene annullato;

- mentre il lavoratore può, eventualmente e se vuole, provare a dimostrare che il licenziamento era addirittura illecito perché determinato da odio razziale, religioso, ecc. Ma questa dimostrazione non riesce mai o quasi mai. Certo, la pretestuosità del motivo addotto dai datori di lavoro può essere un  indizio della sussistenza di un reale motivo discriminatorio,  ma nulla di più che un indizio, perché la dimostrazione
completa dell'intento discriminatorio resta un araba fenice.


Uno scambio tra le due tutele sarebbe a tutto svantaggio dei lavoratori


5. LE CRITICHE ALLE PROPOSTE DI MANOMISSIONE.
Avendo chiaro il contenuto dell’art. 18 nella sua reale portata così come consolidata attualmente dalla giurisprudenza, si può meglio intervenire nel dibattito e passare alla valutazione delle principali proposte di modifica. Un esame di queste ultime in controluce con il contenuto del primo, ci porta a osservare come esse sembrano accomunate, con la sponda del Governo “tecnico”, dall’obiettivo, ritenuto prioritario, di dar  mano libera alle imprese in un momento di crisi economica, allontanandosi, in tal modo, sia dal modello italiano della costituzionalizzazione dei diritti sociali e del contemperamento degli interessi nei rapporti di lavoro sia dal modello sociale europeo, per avvicinarsi al modello -già infaustamente collaudato- della globalizzazione in versione liberista.

Una  esposizione  e  una  valutazione  critica  più  specifica  delle  principali  proposte  in  campo (tralasciando le tante che nascono e stanno nascendo dalla loro scomposizione, ricomposizione, intreccio, ecc.) può essere sintetizzata nel modo seguente.

A) Dal dibattito in corso si comprende come l’abolizione “ tout court” dell’art.18 per tutti i lavoratori sia l’”oscuro oggetto del desiderio “di molti. Ma la proposta non viene avanzata esplicitamente sia per la consapevolezza della capacità di mobilitazione dei lavoratori, in caso di “chiamata” sindacale a tutela dell'art. 18 (è ancor vivo, infatti, il ricordo dei 3 milioni di manifestanti a Roma, Circo Massimo nel marzo 2002), sia perché il licenziamento immotivato non è consentito dalla legislazione interna ed europea.

Tuttavia, occorre tener presente che diverse proposte di modifica dell’art. in questione si traducono, al di là delle dichiarazioni formali, in una sua sostanziale abolizione, cosa che cercheremo di osservare nella seguente disamina.

B) Abolizione dell’art.18 nei contratti di lavoro per i nuovi assunti.

Sembra la proposta preferita dal Governo “tecnico”, fin dall’inizio della trattativa in corso sul mercato del lavoro. Si vorrebbe accompagnarla da una “sfoltitura” (molto improbabile, come si dirà in un prossimo scritto) delle tipologie di contratti precari.

Apparentemente è una proposta più “mirata”, perché diretta a favorire nuova occupazione, ma oltre ad essere intrinsecamente ingiusta (i nuovi assunti sarebbero lavoratori di “serie b”), è ingannevole, perché il contratto “senza art. 18” si applicherebbe non solo a soggetti che entrano per la prima volta nel mondo del lavoro, ma anche a tutti quelli  che cambiano lavoro, e cioè, dopo aver risolto un “vecchio” contratto garantito ne stipulassero, con un diverso (o al limite con lo stesso) datore di lavoro, uno di tipo “nuovo” senza tutela dell'art. 18.

È la tecnica della “riserva indiana”: infatti, una volta relegati, i “vecchi assunti” in una specie di “ruolo ad esaurimento”, sarebbe poi facilissimo decimarli, con pressioni di ogni sorta perché accettino di “novare” il rapporto di lavoro, ossia di risolvere il vecchio e stipularne uno nuovo. Ciò in aggiunta al normale “turn over” (circa l'8% annuo). Nel giro di 5 anni i lavoratori tutelati dall'art. 18 diverrebbero poche migliaia o poche decine di migliaia. Un accadimento del genere si è osservato, ad es., nelle agenzie di assicurazione.

C)  La proposta “hard”di manomissione dell’art.18, in modo differenziato per i lavoratori in costanza di rapporto di lavoro e per i nuovi assunti.

È avanzata con coerenza e sostenuta con tenace determinazione dal prof.Ichino.Fa spesso“capolino”anche nelle varie posizioni assunte dal Governo “tecnico”nella trattativa in cors.

a) La prima direttrice prevede per i lavoratori “stabilizzati”:

°  l’abolizione  dell’art.  18  nei  licenziamenti   per  motivi  oggettivi  (andamento  dell’impresa)  sia individuali per motivi oggettivi sia collettivi, attraverso la previsione che essi siano puramente e semplicemente  insindacabili da parte del giudice, ma indennizzabili e in cambio di “ricchi”ammortizzatori sociali;

° l’abolizione dell’art. 18 anche nei licenziamenti  per motivi soggettivi (disciplinari), dove, anche in caso di licenziamento ingiustificato,  sarà  il  datore –e non solo il lavoratore come attualmente-  a  poter

chiedere alternativamente la reintegra nel posto di lavoro o la sua perdita con la corresponsione di alcune mensilità di salario.

b) La seconda direttrice prevede per i nuovi assunti:

la   non  operatività  dell’art.18  per  una  fase  prolungata  del  lavoro  (due/tre  anni)  prima  della
“stabilizzazione” nei termini esposti nella precedente lettera a)

La proposta è in sé per sé  equivoca ed irrazionale, e porta  in concreto alla eliminazione totale della tutela di reintegra ai sensi dell'art. 18.

* Il punto di partenza di questa, come di simili proposte, non corrisponde al vero.

Non è vero che attualmente i giudici possano sindacare nel merito la consistenza del motivo economico-organizzativo nei licenziamenti individuali per motivo oggettivo, o le ragioni di un licenziamento collettivo. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è (purtroppo) chiarissima in proposito, nel limitare il controllo giudiziario ai restanti margini precisati nel precedente punto 4).

Perché questo assunto viene ripetuto con tanta insistenza?

Perché parla al buon senso più superficiale dell'opinione comune, così da convincerla, che, per i soli licenziamenti economico-produttivi, sia logico e opportuno restituire libertà alle imprese, in un momento tanto difficile.

Pertanto la proposta, poiché detta libertà alle imprese è già stata assicurata dalla interpretazione liberista giurisprudenziale, avrebbe l’effetto di  eliminare  del  tutto  i  pochi  margini  rimasti di garanzia giudiziaria.

* Inoltre, la proposta, ove passasse, avrà un  ulteriore  effetto  “abolizionista  derivato”. Si creerà, infatti, una  “differenza di potenziale” tra tutela per i licenziamenti per motivo soggettivo (disciplinare) e tutela (ridotta o annullata) per licenziamenti per motivi aziendali od oggettivi, che inevitabilmente indurrà i datori di lavoro, seguendo la linea di minor resistenza, a ricorrere solo a quelli per motivo oggettivo;essi motiveranno con tale motivo, non importa se pretestuoso e falso, tutti i licenziamenti cui hanno intenzione di ricorrere.

Basterà attaccare al licenziamento l'etichetta di motivo oggettivo, anche generica e pretestuosa, per evitare comunque la reintegra ex art. 18: ammesso che il giudice possa ritenere insussistente il giustificato motivo oggettivo (ed abbiamo visto quanto sia ormai ristretta questa possibilità), in ogni caso potrebbe accordare al lavoratore solo un modesto indennizzo economico!

Non ci vuol molto a comprendere che se nella rete c'è anche un solo buco, tutti i pesci fuggiranno di lì! E una volta attaccata l'etichetta “motivo oggettivo”, l'espulsione del lavoratore sarà sicura e definitiva senza neanche lo scomodo di un possibile processo, e salvo il pagamento di un indennizzo “standard” prefissato.

La “questione dell'etichetta” è insuperabile, nel senso che l'eliminazione della reintegra nei licenziamenti  per  ragioni  oggettive  comporterebbe  comunque  la   concreta  scomparsa  anche  dei

licenziamenti motivati formalmente con motivo soggettivo, e quindi della reintegra nel posto di lavoro in assoluto.

*  Nel caso del licenziamento soggettivo, quando anche il datore volesse motivare (senza la simulata “etichettatura”) la colpa disciplinare e nel processo il licenziamento risultasse ingiustificato, lo stesso datore avrebbe la facoltà di chiedere il reintegro o la monetizzazione, venendosi così ad eliminare l’attuale esclusiva facoltà di scelta del lavoratore.

* Quanto ai  nuovi assunti, l'art. 18 non è abolito, ma in qualche modo  “sospeso”, con possibilità, anche se non garantita, di accedere al rapporto definitivo dotato della tutela dell'art.18.La stabilità dell'art. 18 diventa, insomma, una specie di  “terra  promessa” che si spera di raggiungere se il datore di lavoro, “contento” per come il lavoratore si è comportato in questo primo (e comunque pluriennale) periodo, lo consentirà. La proposta in sostanza modifica il normale contratto a tempo indeterminato rendendolo  non stabile per il primi due - tre anni, come se si trattasse – grosso modo – di un lungo periodo di prova.

 In realtà, il lavoratore neanche dopo essere riuscito, in ipotesi, a superare il periodo iniziale di tre anni, godrebbe effettivamente della tutela dell'art. 18, in quanto il licenziamento per giustificato motivo oggettivo diventerebbe insindacabile (salvo un indennizzo e concessione di ammortizzatori sociali di “nuovo tipo”) e quello per motivo  soggettivo darebbe luogo, dopo la sentenza che ne dichiarasse la illegittimità, alla facoltà anche al datore di lavoro (e non solo come oggi per il lavoratore) di monetizzare la reintegra con il pagamento aggiuntivo di 15 mensilità.

* Quanto infine ai  “ricchi”ammortizzatori sociali che dovrebbero compensare il lavoratore licenziato per motivi oggettivi senza possibilità di reagire, non è chiaro chi dovrebbe garantirli e pagarli.

L’esito infausto di questi scambi è stato già sperimentato con l’introduzione della totale flessibilità delle tipologie contrattuali modulate sull’esigenze delle imprese ;esse avrebbero dovuto essere scambiate con le tutele nel mercato. Ma, mentre le tutele nel rapporto sono state subito smantellate, quelle da introdurre nel mercato le stiamo ancora aspettando.


D) La proposta che interviene sui licenziamenti per  motivo  oggettivo, prevedendo la permanenza degli  attuali ristrettissimi margini di sindacabilità di mera legittimità (violazione dei criteri di scelta, ecc., esposti nel precedente paragrafo 4), ma sostituendo comunque, quando risulti una illegittimità, la sanzione di reintegra dell'art. 18 con un indennizzo economico.

È l'ordine di idee nel quale, a quanto pare, è sembrata muoversi la Cisl.

È una  variante “soft” della proposta precedente, che limita l’intervento ai licenziamenti per motivo oggettivo e mantiene, al posto della totale insindacabilità, la sindacabilità ristretta di mera legittimità.

Tuttavia, come la precedente:

* Parte dall’assunto erroneo delle “mani legate” alle imprese.

* Comporta  l’effetto “abolizionista diretto” delle tutele di cui all’art.18, nei licenziamenti per motivo oggettivo, per la formale surroga della reintegra con la monetizzazione; e l’effetto “abolizionista derivato”delle stesse tutele, nei licenziamenti per motivo soggettivo, per scomparsa della figura derivata

dalla  “differenza  di  potenziale”di  garanzie  tra  le  due  figure  che  indurrà  i  datori  alla  “etichettatura oggettiva”in tutti i licenziamenti.

Il  sistema  binario imperniato su licenziamenti per ragioni soggettive e licenziamenti per ragioni oggettive, funziona, detto in breve, solo se la sanzione per la illegittimità degli uni e degli altri è la medesima, altrimenti la tipologia con sanzione minore è destinata a fagocitare l'altra.

La necessaria identità delle sanzioni non significa, però, di per sé, anche identità della tutela, Perché se è vero che, attualmente la mancanza in concreto di un giustificato motivo oggettivo è sanzionata (nelle unità produttive con più di 15 dipendenti) con la reintegra dell'art. 18 al pari della mancanza in concreto del giustificato motivo soggettivo, la sindacabilità del giustificato motivo oggettivo è molto minore. Se esiste un minimo, ma proprio un minimo, di ragione economico-produttiva, il licenziamento è valido e il lavoratore non ha diritto né ad indennizzo né a reintegra.

Una necessità o alta opportunità di intervento nella materia dei licenziamenti (individuali o collettivi) per ragioni economico-produttive, dunque esiste, ma nel senso di una maggiore, e non minore, tutela dei lavoratori, anche se ciò non significa (come diremo) maggior vincolismo sulla discrezionalità di gestione datoriale, ferma l'esigenza imprescindibile per l'equilibrio del sistema, che in caso di pretestuosità (ossia dove il licenziamento per motivo oggettivo non superi il pur leggero esame di legittimità) si faccia luogo all'annullamento, ossia alla tutela di reintegra dell'art.18.


E) La proposta di un  “contratto unico”con la previsione di un contratto di ingresso o inserimento di durata triennale senza le tutele dell’art.18, da far precedere al normale rapporto a tempo indeterminato.

È la proposta avanzata dal prof. Boeri.

Non può sfuggire la differenza di fondo tra questa e quella sub B): qui  l'art. 18 non è abolito, ma, come peraltro anche per una parte limitata della proposta Ichino relativa ai nuovi assunti, è “sospeso”, con possibilità, anche se non garantita, di accedere al rapporto definitivo dotato della tutela dell'art.18, che rimane una “terra promessa”, ma con la grossa differenza dalla proposta Ichino, che il lavoratore,  dopo essere riuscito, in ipotesi, a superare il periodo iniziale di tre anni,  godrebbe effettivamente della tutela dell'art. 18

Anche nell'assai più apprezzabile proposta di “contratto unico” avanzata da Boeri resta però il fatto che  tutti i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato avrebbero il lungo periodo triennale  “di prova”, ed anche qui, pertanto, si ripropone - anche se in forma meno grave – la vicenda della  “riserva indiana”: ogni lavoratore che cambiasse lavoro (non solo un giovane alla ricerca di prima occupazione, ma anche un quarantenne o cinquantenne) dovrebbe sottoporsi, nel nuovo impiego, al “purgatorio” dei tre anni di insicurezza. Ed è del tutto probabile che i datori di lavoro  approfitterebbero in molti modi della  triennale “mano libera” loro assicurata.

F) La proposta di sostituire tout court la reintegra prevista dall'art. 18 per i licenziamenti ingiustificati con un indennizzo economico, ma mantenere la reintegra per i licenziamenti discriminatori.

In tal senso si è collocata la presidenza della Confindustria nella recente sua Conferenza biennale a
Milano.

Si tratta di una proposta che può confondere (non importa se consapevolmente o inconsapevolmente)l’ opinione pubblica, Perché si chiede di eliminare una tutela  effettiva scambiandola con  il  mantenimento  di  una  tutela  (quella  contro  i  licenziamenti  discriminatori)  in  realtà  pressoché
impraticabile.

I sostenitori della proposta argomentano che di fronte ad un licenziamento “etichettato” per giustificato motivo oggettivo, ma evidentemente pretestuoso, il lavoratore licenziato potrebbe sostenere e dimostrare che il licenziamento è stato in realtà ispirato da intenzione discriminatoria, ossia da avversione politica, sindacale, ecc., poiché resterebbe la previsione di nullità del licenziamento discriminatorio.

È però una risposta furviante perché si è già visto (punto 4) come l'onere della prova della sussistenza del motivo oggettivo discriminatorio incomba sul lavoratore e sia praticamente impossibile assolverlo; è poi logicamente  erronea perché il motivo vero, dissimulato sotto l'etichetta di motivo oggettivo, potrebbe essere un motivo soggettivo (disciplinare) che bisognerebbe poter contestare e resta, invece, completamente obliterato, una volta apposta l'etichetta.

Es., Tizio non tiene comportamenti davvero riprovevoli, ma non si dimostra troppo “collaborativo” (a volte ritarda l'ingresso a lavoro di qualche minuto, non fa lavoro straordinario al di là dei limiti dell'obbligatorietà, ecc.). Poiché questi comportamenti sono o leciti o comunque non tali da integrare un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, il datore Tizio licenzia comunque Caio per tale motivo asserendo falsamente che il suo posto di lavoro di, poniamo, manutentore elettrico è abolito.

In realtà quel ruolo di manutentore elettrico in azienda serve e quindi Tizio assume poi un altro manutentore che, essendo più giovane, gli costa anche meno.

Tizio  impugna  il  licenziamento  e  vorrebbe  essere  reintegrato,  ma  non  ci  riuscirebbe  mai  se passassero le proposte di riforma dei licenziamenti per motivo oggettivo ora ricordate.

Dalla dimostrazione ben possibile dell'insussistenza del motivo oggettivo di abolizione del posto, gli deriverebbe solo un indennizzo economico, ferma comunque la perdita del posto di lavoro; la possibilità di invocare la nullità del licenziamento discriminatorio darebbe luogo ad una dimostrazione difficilissima, ma in ogni caso l'intento discriminatorio non esiste Perché il datore non ha licenziato il lavoratore per motivi politici, sindacali, razziali, ecc., ma per antipatia e poca stima, ossia per piccole infrazioni; la possibilità, però, di impugnare la scarsa consistenza di queste ragioni di tipo soggettivo non esiste egualmente Perché il datore non le ha enunciate ed il lavoratore non può dunque  individuarle, né il Giudice può farlo a sua volta!

Insomma, l'occultamento del motivo giustificativo soggettivo  insufficiente a fondare il licenziamento, dietro un motivo oggettivo ancorché in realtà pretestuoso, sarebbe una strategia vincente e sempre pagante, una simulazione di fatto consentita e si avrebbe così, in concreto, l'eliminazione non “parziale” ma “totale” dell'art. 18.


G) La proposta del modello tedesco

Anche nel diritto del lavoro tedesco, non è ammesso il licenziamento immotivato. Il recesso senza motivi sarebbe nullo.

Anche  i motivi che giustificano il licenziamento possono essere, di natura soggettiva (disciplinare), oggettiva (economico/produttiva), ma, in aggiunta, anche personale (principalmente di salute).

Inoltre, durante il processo, il lavoratore, se vuole, ha diritto di continuare a lavorare.

La  sanzione, in caso di licenziamento ingiustificato, può consistere nel reintegro nel posto di lavoro ma anche nell’indennizzo.

L’alternativa è stabilita dal giudice con la sentenza o dopo il procedimento quando, con l’instaurazione di un sub procedimento, sia il lavoratore, ma anche il datore, possono chiedere l’indennizzo, dimostrando una incompatibilità tra la prestazione lavorativa e l’ambiente in cui si svolge.

L’alternativa si ripropone nei successivi gradi di giudizio.

Da questa sommaria esposizione, e con riferimento a quella precedente relativa al modello italiano, si possono facilmente evincere le similitudini e le differenze.

È sintomatico come le diverse parti che stanno  mutuando il modello tedesco per l’elaborazione di una loro proposta, valorizzino alcuni aspetti, trascurandone altri, e viceversa; con  risultati  molto  diversi anche rispetto allo stesso modello di riferimento.

Alcuni, ad es., propongono di mantenere l’art. 18 per i licenziamenti disciplinari e mutuare il modello tedesco delle sanzioni alternative ai licenziamenti economico/organizzativi.

Altri, invece, prevedono il modello tedesco per i primi e l’esclusione dell’alternativa, quindi la sola monetizzazione, per i secondi (in sostanza la proposta Ichino, chiamata modello tedesco con correttivi, agirando identificazioni che si preferisce evitare). Ecc.

A nostro parere, il modello disegnato dal legislatore italiano, pur indebolito dalle interpretazioni della giurisprudenza, è preferibile a quello tedesco.

Questo ultimo rappresenta un oggettivo ulteriore  indebolimento delle tutele dei lavoratori, Perché rimette la decisione a una valutazione paternalistica del giudice.

Inoltre l’alternativa delle sanzioni, riproponendosi nei successivi gradi di giudizio,  non semplifica il procedimento e torna a detrimento della parte debole del rapporto, che nel calcolo tra i rischi nei gradi di giudizio è  spinto più facilmente  a monetizzare da subito, subendo la perdita del legittimo diritto a evitare il licenziamento illegittimo che un sistema più garantista come quello italiano potrebbe dargli.

Per di più, le varie proposte, mutuate o fatte mutuare per abbellimento di facciata dal modello in questione, avvicinandosi o coincidendo con le proposte già analizzate, meritano le principali osservazioni critiche che abbiamo avanzato circa il depotenziamento o annullamento delle sanzioni in una o in un’altra tipologia di licenziamento, nel senso che la tipologia con sanzione minore è destinata a fagocitare l’altra.

È quanto avviene anche in queste proposte mutuate dal modello tedesco, quando, ad es., si pensa di eliminare   l’alternativa   delle   sanzioni   nel   licenziamento   economico/produttivo,   prevedendo   solo l’indennizzo, sulla base dell’erroneo (come già chiarito) presupposto delle “mani legate”alle imprese. In tal caso, la scelta del datore sarà di motivare in senso economico tutti i licenziamenti, anche disciplinari, e tutte le tutele di cui all’art.18 saranno abolite.

Ma aggiungiamo infine un ulteriore argomento. In queste proposte come nelle precedenti relative ai licenziamenti  economico  produttivi, si compie un  errore  logico oltre che di giustizia. Infatti è proprio in questi licenziamenti che l’ indennizzo non ha senso.

Nei licenziamenti per motivo oggettivo non c’è una colpa grave o gravissima del lavoratore ma una ragione inerente all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro.
Quindi o il motivo economico/produttivo esiste e allora il licenziamento è indiscutibile (al massimo compensato da un qualche indennizzo) o non esiste, ed allora il motivo vero è mascherato : si tratta di un motivo di capriccio(es.antipatia personale) o di speculazione (es. esternalizzazione del lavoro). Permettere comunque
il licenziamento così mascherato èco me permettere il licenziamento “ad nutum”indennizzato


6. IL MANTENIMENTO DELLA NORMA.
Dalla esposizione dei punti precedenti, e in particolare dalla funzione della norma consolidata nel tempo, dai contesti anche europei in cui si colloca, dagli indici internazionali relativi alla flessibilità, dalle forzature mediatiche e dagli equivoci sulla sua portata, dai suoi reali contenuti, dalle interpretazioni giurisprudenziali, dalle critiche alle varie proposte di manomissione, dai necessari interventi nelle strutture e nei servizi effettivamente funzionali a incrementare la crescita economica e sociale del Paese, emerge, a nostro avviso, come l’art.18 assicuri la flessibilità in uscita, rappresenti già un equo contemperamento degli interessi nel rapporto di lavoro. Tale contemperamento, anzi, per la intervenuta opera giurisprudenziale d’ ispirazione culturalmente liberista, è già sbilanciato a favore delle imprese, tanto che se si ritenesse di dover apprestare una manutenzione sulla materia, questa dovrebbe valorizzare le tutele dei lavoratori, ripristinando, con una interpretazione autentica, l’intento originario del legislatore.

Occorre dunque, a nostro avviso, quanto meno mantenere la normativa vigente.

Infatti in un periodo di crisi economica, finanziaria e sociale come quella che stiamo attraversando, assume rilevante importanza aumentare la base occupazionale, ma lo strumento fondamentale a tal fine è la crescita e lo sviluppo Questi ultimi necessitano interventi in altri settori e che comunque non daranno effetti nel breve periodo. Modificare le regole della flessibilità in uscita nella direzione della riduzione delle tutele dei lavoratori in un periodo di crisi, significa aggravarne ulteriormente le condizioni di vita, senza risolvere gli interessi dei datori effettivamente interessati allo sviluppo delle loro imprese più che all’aumento del potere arbitrario sui dipendenti.


7. L’AMBITO DELL’ESTENSIONE
Dalla esposizione dei contenuti attuali dell’art.18 oltre le forzature, si possono fare, altresì, alcune osservazioni circa l’opportunità di modificarlo in senso estensivo.

Appare  discutibile,  infatti,   il  discrimine  quantitativo,  tra  i  5  o  più  di  5  lavoratori  per  regolare diversamente il licenziamento per motivi oggettivi, tanto da arrivare a negare per i licenziamenti collettivi.

oggettivi (sopra i 5 lav.) il minimo di sindacabilità che resta per i licenziamenti individuali oggettivi e anzi ad ammetterne la pretestuosità senza che per questo diventino illegittimi.

Appare  discutibile altresì, nei licenziamenti  disciplinari, la applicazione delle tutele di cui all’art.18 ai soli lavoratori delle aziende  con più di 16 dipendenti, mentre i lavoratori delle piccole imprese ne restano esclusi.

Se  infatti  il  licenziamento  è  una  punizione  per  una  colpa  disciplinare  grave  o  gravissima  del lavoratore, viene di conseguenza che in caso di licenziamento ingiustificato, il licenziamento deve essere eliminato. Ma questo deve riguardare tutti i lavoratori, anche quelli occupati nell’unità produttiva con meno di 16 dipendenti, Perché resta incomprensibile che chi è stato punito con il licenziamento per un colpa poi rivelatasi insussistente, debba restare ugualmente punito, ed in modo così grave.

Se questa evidente ingiustizia non è ancora stata corretta con l’estensione della tutela dell’art. 18 a tutti i licenziamenti disciplinari, ciò è dovuto proprio alla „pericolosa vicinanza”con il giustificato „motivo oggettivo”, al fatto cioè che la fondamentale legge n. 604/1996 parli, all’art. 3 in parallelo di „giustificato motivo soggettivo e di giustificato motivo oggettivo”.

Quando si parla di estensione dell’art. 18 al di sotto del livello occupazionale dei 16 addetti, si respinge l’idea Perché si pensa ad un controllo giudiziario troppo stringente e drastico nelle conseguenze, sulle decisioni economiche del piccolo imprenditore, e non all’ingiustizia che può essere patita nel licenziamento disciplinare dal lavoratore della piccola impresa.


8. LA MANUTENZIONE NEL PROCESSO.
La manutenzione dell’art.18 oggi auspicabile consiste in una ben possibile revisione dei processi relativi alle vertenze di licenziamento, per accelerarne la definizione e così assicurare la necessaria certezza del diritto, particolarmente utile alla gestione delle imprese e alle prospettive dei lavoratori.

Infatti uno degli argomenti che si sente ripetere con più frequenza da parte di quanti vogliono abolire o gravemente limitare l'art. 18 dello Statuto è che i processi di impugnazione di licenziamento con reintegra del posto di lavoro durano, talvolta, diversi anni, con il risultato di un notevole aggravio del danno che al temine del processo la ditta deve risarcire al lavoratore e di una grande difficoltà o impossibilità di dare effettivamente corso alla reintegra.

Bisogna osservare che in tale obiezione vi è non poco di strumentale perché dopo l'art. 32 del “collegato lavoro”, il processo va comunque iniziato entro 270 giorni, di tal che le (successive) lungaggini processuali non sarebbero comunque imputabili al lavoratore. Lungaggini che però non costituiscono neanche la regola, dal momento che la maggior parte dei tribunali del lavoro concede alle cause di licenziamento una informale “corsia preferenziale”. Quanto al danno risarcibile occorre considerare che ben pochi lavoratori licenziati restano disoccupati per tutto il tempo del successivo processo e che quanto abbiano guadagnato (anche con lavori precari) nel periodo tra il licenziamento e la sentenza va, allora, dedotto dal danno dovuto dal datore di lavoro.

Con tutto questo è senz'altro vero che una rapida decisione del dilemma “reintegra si – reintegra no” in tempi molto brevi è nell'interesse di ambedue le parti, per il buon motivo che “a botta calda”, per cosi dire, il trauma del licenziamento annullato è comunque recuperabile: il posto di lavoro, infatti è ancora lì, e l'importo del danno economico è minimo e, dunque, anche visto da parte datoriale, il vincolo dell'art. 18 risulta obiettivamente poco oneroso.

Semplicemente, se il processo è breve o brevissimo, viene rimediato un errore, che resta senza vere conseguenze sia per il lavoratore che per il datore.

La soluzione del problema è a nostro avviso assai semplice, e d'altro canto è stata individuata dalla migliore dottrina processualista da molti anni, ma purtroppo senza che il legislatore vi prestasse orecchio.

Si tratta, di far precedere il normale processo in tre gradi da una fase “sommaria” che termina con un decreto, il quale accoglie o respinge la domanda, salva poi la possibilità di un atto di opposizione al decreto stesso che fa “partire” il normale processo.

È lo schema che ha avuto tanto successo a proposito dell'art. 28 dello Statuto in materia di repressione del comportamento antisindacale: si parte con un ricorso, appunto, di tipo sommario che il tribunale deve decidere in pochi giorni emettendo il decreto che ordina la rimozione del comportamento anti-sindacale oppure nega l'anti-sindacalità. È esperienza ormai consolidata da diversi lustri.In questo modo la controversia ottiene un primo “sfogo”, che spesso è anche definitivo, perché l'opposizione non viene poi proposta o coltivata. Ma comunque anche se è coltivata resta però acquisita una prima sistemazione della vertenza.  Lo  stesso  accadrebbe  se  al processo  per  annullamento  del licenziamento e reintegra  nel  posto  di  lavoro  se  fosse  aggiunta  una  prima  fase  di  cognizione  sommaria,  di  durata  non
superiore ad un mese, al termine della quale la reintegra fosse concessa o negata.

È chiaro infatti che una volta ordinata ed eseguita la reintegra, la “ferita” del licenziamento contestato avrebbe tutte le possibilità di rimarginarsi secondo quanto prima osservato. Occorre sottolineare, per evitare confusioni, che questa preventiva fase sommaria del processo di annullamento del licenziamento di reintegra del posto di lavoro è cosa diversa dal procedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. cui pure si è cercato fare molto ricorso nell'impugnazione dei licenziamenti. Senza scendere in tecnicismi, basti dire che il procedimento cautelare implica l'urgenza cioè il periculum in mora e quindi il giudice che non ravvisi questo periculum può respingerlo senza esaminare il merito della questione, laddove il procedimento a cognizione sommaria è un procedimento che il giudice deve comunque affrontare e prescinde dalla caratteristica d'urgenza.

Ancora il procedimento sommario dà luogo ad una pronunzia che, se non è opposta, si stabilizza in una sorta di giudicato.

Tanto premesso in linea generale, la novità che si propone potrebbe essere aggiunta allo stesso art.
18, il quale, già ora, nei suoi commi 7, 8 e 9 contiene delle regole processuali per il caso di licenziamento di un membro di rsa, prevedendo in particolare la possibilità di reintegra (su domanda congiunta del membro di rsa e del sindacato in ogni stato e grado del giudizio). Sarebbe del tutto lineare logicamente aggiungere, altri due o tre commi contenenti ulteriori previsioni di tipo processuale e, quindi, proprio questa eventuale fase sommaria diretta alla reintegra immediata su richiesta del lavoratore. Reintegra che il tribunale disporrebbe,  dopo  la  cognizione  sommaria,  con  un  decreto  immediatamente  esecutivo  ancorché suscettibile di opposizione, che farebbe partire il giudizio ordinario articolato su tre gradi.

I lavoratori avrebbero sicuro vantaggio nell'utilizzare questa facoltà da lungo tempo invocata, ma occorre porsi un problema, per così dire “diplomatico o politico”: si sostiene non di rado spesso da controparte - in maniera più o meno provocatoria – che il lavoratore spesso preferirebbe non affrontare

tempestivamente il giudizio onde “arricchirsi” con un maggior risarcimento del danno e, dunque, appare opportuno completare la previsione del giudizio sommario con un meccanismo che consenta anche al datore di lavoro di imporre che esso sia effettivamente utilizzato.

Per questa finalità piuttosto originale (il possibile convenuto che vuole che il processo si faccia subito o mai più) esisteva in epoca medioevale - rinascimentale la c. d. “azione di iattanza”, ossia una sorta di diffida di una parte all'altra ad agire in un certo termine ove ritenesse di avere delle ragioni nei suoi confronti o a tacere per sempre. Era un modo sicuramente efficace per raggiungere la certezza delle situazioni giuridiche dubbiose o discusse.

Si può contemplare anche questa possibilità: il ricorso alla fase di accertamento sommario che, normalmente, costituisce solo una facoltà per l'attore e quindi anche per il lavoratore licenziato, ma che divenga necessaria se il datore di lavoro procede “in giattanza” invitando il lavoratore a far valere le sue ragioni in giudizio entro 90 giorni, a pena, altrimenti, del verificarsi di una acquiescenza al licenziamento.

Non si tratta di una ipotesi o vicenda pericolosa per il lavoratore, proprio perché questo avviso- diffida “in giattanza”- dovrebbe essere notificato con le forme degli atti giudiziari e quindi il lavoratore messo ufficialmente sull'avviso, nei 90 giorni successivi potrebbe agevolmente difendersi.

Si darebbe al lavoratore la possibilità di avere entro un mese una decisione sulla richiesta di reintegra, senza che ciò riduca la vertenza di licenziamento ad un “colpo di dadi” perché poi, se le parti lo vogliono, il processo può continuare per tutti i gradi ordinari. È chiaro, tuttavia, che, specialmente nell'ipotesi che sia ordinata la reintegra, quel primo “decisum” giudiziario metterà spesso in moto un ripensamento del problema con possibilità di soluzione anche concordata.

Per altro verso, il datore di lavoro, se lo vuole può anche lui provocare un giudizio molto veloce e per questo  la  proposta  risulta  tendenzialmente  “bipartisan”:  se  è  vero  che  i  datori  di  lavoro  vogliono soprattutto una decisione ravvicinata, questa proposta dà anche a loro i mezzi per ottenerla.


9. LA MANUTENZIONE NEL WELFARE
Un  secondo  tipo  di  manutenzione potrebbe prevedersi in tema di  licenziamenti  per  giustificato motivo oggettivo e di licenziamenti collettivi, tenuto conto di quanto già esposto in merito al punto 4.

Infatti, la situazione normativa attuale ed ancora vigente è sulla carta ed in teoria buona, ma in realtà pessima. Buona perché “sulla carta” si applica l’art. 18, ma in realtà pessima, perché, in concreto, i giudici ritengono che il giustificato motivo oggettivo vi sia sempre, e che le ragioni del licenziamento collettivo siano insindacabili (salvo il rispetto del criterio di scelta dei licenziandi). Sicché,  di fatto,  l’art. 18  non si applica quasi mai.

Occorre, allora, “recuperare terreno a livello delle fattispecie”.

Per intenderci è opportuno ritornare sulla differenza strutturale tra giustificato motivo soggettivo e giustificato motivo oggettivo.

Il giustificato motivo soggettivo (o giusta causa) è una fattispecie complessa, articolata, come lo sono i comportamenti umani che l'ordinamento valuta meritevoli di punizione (costituiti qui dal licenziamento): tutto conta per il giudizio del magistrato, ossia le caratteristiche della persona, la sua storia, la sua educazione, la sussistenza di circostanze attenuanti e aggravanti, strumenti, la prassi aziendale ecc., e per questo si parla di “giudizio di merito.”

Nel giustificato motivo oggettivo, invece, occorre, “fare i conti”, per così dire, con l'art. 41 della Costituzione, che, specie nell'interpretazione totalizzante data dalla giurisprudenza liberista, garantisce una larghissima discrezionalità dei datori di lavoro imprenditori. È un ritornello ripetuto in modo assordante in questi ultimi lustri, e tanto più ossessivo quanto più diventano evidenti proprio i guasti del neo-liberismo.

Tuttavia, non è possibile concettualmente superare il precetto normativo della  giustificatezza del licenziamento, chiaramente espresso dall'art. 3 della L.604/1966. Se il licenziamento deve essere “giustificato” - ed è la legge che lo impone – le ragioni economico-produttive non possono essere dichiarate o immaginate dagli imprenditori. Devono avere la loro, seppur minima, consistenza obbiettiva.

Assumiamo che questa sia la vera volontà di legge, trascurando le opinioni di chi vorrebbe che sia considerata circostanza “oggettiva” la mera volontà soggettiva del datore o di chi, come gli scriventi, vorrebbe un ben più avanzato equilibrio di interessi tra quelli:del datore alla libertà di organizzazione e dei lavoratori al mantenimento della occupazione.

Attualmente  il giustificato motivo oggettivo ha una consistenza “minima”, e cioè basta una esigenza appena apprezzabile, e ciò vale per giustificare la riduzione dell'occupazione e la perdita dei posti di lavoro. Ma se neanche questa esigenza sussiste, del licenziamento “per motivo oggettivo” non rimane nulla : occorre parlare di pretesto, ovvero di esigenza non riconoscibile né meritevole di tutela.
Nella dialettica politica e nell'azione di revisione normativa, occorre identificare queste situazioni in
cui la sproporzione di forze va riequilibrata.

Con riguardo ai licenziamenti individuali per motivo oggettivo, esse sono due:

* che i lavoratori licenziati siano sostituiti con forza lavoro interna o esterna più conveniente,

* che non vengano sostituiti, ma il loro carico lavorativo sia ripartito ed accollato sui lavoratori superstiti.

Si tratta di due evidenti casi di intento speculativo e di aumento dello sfruttamento che non possono essere tollerati.

La relativa previsione può assumere o la forma “secca” di un divieto, o quella, più diplomatica, di eccezione al riconoscimento in positivo del potere datoriale di modulare la organizzazione produttiva.  Non ci deve essere spazio per una soluzione risarcitoria, perché i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sono quasi sempre legittimi in sé, ma in queste situazioni non si può parlare di “esigenze” apprezzabile, dunque, si tratta di un atto diverso, del tutto ingiustificato, illecito e, dunque, invalido.

Quanto ai licenziamenti collettivi, il concetto da fare passare è che essi sono possibili nelle stesse situazioni in cui sarebbe possibile il ricorso alla CIG straordinaria per crisi o ristrutturazione aziendale, anche se, nello specifico, l'impresa, per la sua tipologia (commercio, credito assicurazioni ecc.) non è destinataria di quel tipo di agevolazioni sociali.

Tutto questo non significa, però, che la tutela dei lavoratori debba essere limitata, nei licenziamenti per motivo oggettivo, a quei pochi casi e fattispecie di intento speculativo e di aggravamento dello sfruttamento appena ricordati: questi sono i  limiti interni, ma poi subentrano i  limiti esterni sotto forma di obbligo preventivo di utilizzo  degli ammortizzatori sociali “conservativi” (rivisti “in melius”), prima di poter legittimamente procedere al licenziamento.

Un esempio chiarirà il concetto: se l'imprenditore Tizio allega una crisi economica inesistente per licenziare tre lavoratori e sostituirli con altri meno costosi, è violato il limite  interno al suo potere, ma se una crisi economica-produttiva è davvero in atto, l'obbligo del datore di lavoro è di utilizzare  prima di passare ai licenziamenti, i vari tipi di contratti di solidarietà, il che appunto, costituisce un limite  esterno al suo potere.

In definitiva, un intervento di riforma semplice e coerente sarebbe quello di specificare, il disposto dell'art. 3 della L.604/1966 con riguardo alla nozione di giustificato motivo oggettivo, aggiungendo al testo attuale della norma un secondo, un terzo ed un quarto comma, dal seguente tenore:

Art. 3 Comma II°

“Costituiscono giustificato motivo di licenziamento, ai sensi del comma precedente, la riduzione di attività e di lavoro dovute ad andamenti economici negativi, o a programmi di riorganizzazione aziendale, o altre misure di incremento della produttività, con esclusione delle ipotesi di sola sostituzione dei lavoratori licenziati con diversa forza lavoro, interna o esterna, o di semplice ripartizione del carico di lavorativo dei  licenziati sui lavoratori superstiti.

Trovano applicazione in tali ultime ipotesi nonché in quelle di carenza di nesso causale tra giustificato motivo e licenziamento le disposizioni previste con riguardo alla invalidità dei licenziamenti disciplinari privi di giusta causa o giustificato motivo.

Art. 3 Comma III°

“Il licenziamento per le ragioni tecniche organizzative ed economiche, di cui al primo comma sono inefficaci in mancanza di ricorso alle integrazioni salariali o altre misure di salvaguardia dell'occupazione
previste dalle vigenti leggi o dagli accordi sindacali.

Art. 3 Comma IV°

“I disposti dei commi che precedono si applicano anche ai licenziamenti collettivi per riduzione di personale”.

Il combinato disposto di questi tre nuovi commi dell'art. 3 Legge 604/1966 integrano una sufficiente rete protettiva di limiti interni ed esterni al potere di licenziamento per ragioni economiche-produttive, sia individuale che collettivi.

20/03/2012


* Università Politecnica delle Marche
** Avvocato

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