La
riflessione che proponiamo appare particolarmente pertinente in relazione agli
avvenimenti a cui stiamo assistendo, soprattutto sulla sponda-sud del
Mediterraneo e che possono essere interpretati anche in questa prospettiva.
Sembra, quindi, molto opportuno fermare l’attenzione sul fondamentale diritto
dei popoli all’autodeterminazione, sulle sue origini storiche e sul suo
autentico, complesso significato.
Alba
Dini Martino
I popoli si rivoltano sovente contro i loro oppressori quando le
istituzioni giuridiche non riconoscono loro la possibilità di esprimere la
propria opinione e di darsi un sistema politico di propria scelta. L’Occidente ha
trasformato progressivamente questa constatazione di fatto in un diritto, a
partire dalla seconda metà del XVIII secolo. E dalla filosofia individualista,
che fonda la legittimità del
potere su un contratto stipulato fra governanti e governati, discendeva
logicamente che, in alcune circostanze, questi ultimi potessero impugnarlo.
La
nazione è qui considerata come un soggetto di diritto capace di esprimere una
sua volontà. Questa dottrina sarà invocata nelle guerre balcaniche contro
l’Impero ottomano e il presidente Wilson
la includerà nei 14 punti che formulerà per ristabilire la pace dopo la prima
guerra mondiale (11 febbraio 1918).
Malgrado
tali riferimenti, questo diritto non è stato consacrato dal patto della Società
delle Nazioni; si dovrà attendere la seconda guerra mondiale per vederlo
entrare nei documenti internazionali, (Carta atlantica, Dichiarazione di
Yalta), prima di vederlo formulato chiaramente nella Carta delle Nazioni Unite
(art.1 e 2). I Patti internazionali sui diritti dell’uomo (1964) estenderanno
tale diritto da un ambito strettamente politico a quello della libera
disposizione, da parte dei popoli, “de leurs richesses et de leurs ressources
naturelles”, (“delle loro ricchezze e delle loro risorse naturali”), (art.1 e
2).
L’affermazione
del diritto
all’autodeterminazione dei popoli si manifesta, tuttavia, non priva di
ambiguità. Per alcuni, essa costituisce l’enunciato di un principio a cui le
diverse politiche devono ispirarsi; per altri, si tratta di un diritto
effettivo e il non onorarlo in tutte le circostanze costituisce ingiustizia
grave. I testi internazionali non hanno dissipato questa incertezza; infatti la Risoluzione 2625
(XXV), adottata in occasione del 15° anniversario della creazione delle Nazioni
Unite, da una parte indica in dettaglio tutti i diritti dei popoli a
determinare il proprio regime politico, come pure a disporre delle proprie
ricchezze naturali, ma contiene, d’altra parte, una disposizione finale che non
autorizza ad interpretare la risoluzione nel senso di portare attentato alla
integrità territoriale o alla unità politica di Stati sovrani e indipendenti
che agiscono secondo il diritto internazionale, mettendo così la sordina al
diritto delle minoranze a compiere secessioni.
Il
processo indicato, mostra la complessità della questione
dell’autodeterminazione per tutti coloro che vogliano affrontarla in modo
giusto ed equo; non stupisce, quindi, se il magistero ecclesiastico è
intervenuto, a diverse riprese, a questo proposito, in particolare Giovanni
Paolo II al Comitato contro l’apartheid (1974), alla Corte internazionale di
giustizia (1988), davanti al Corpo diplomatico (1988), per il 50° anniversario
dell’inizio della seconda guerra mondiale (1989), per il 25° anniversario della
Dichiarazione del 1948 etc…
Si possono formulare, in conclusione, le seguenti osservazioni: 1) il
diritto all’autodeterminazione dei popoli è apparso in circostanze storiche
precise, nel momento in cui le popolazioni occidentali hanno fatto
dell’individualismo, dell’autonomia della volontà e del riconoscimento della
personalità morale ad alcuni raggruppamenti sociali, i principi fondamentali dell’ordine
pubblico; diventava allora normale riconoscere, ad ogni popolazione che lo
desiderasse, il diritto di disporre di se stessa; 2) l’applicazione del
principio non procede senza difficoltà nel sistema occidentale stesso, poiché
la nozione di “popolo” manca di precisione; 3) la generalizzazione della
espressione nel linguaggio internazionale può condurre ad alcune
incomprensioni, se l’ordine pubblico di uno Stato è fondato su una filosofia
sociale che non fa del riconoscimento della personalità giuridica dei popoli il
principio di una organizzazione giusta della società e, di conseguenza, non
condivide la visione occidentale dei diritti dell’uomo; 4) malgrado tutte
queste difficoltà, tale principio deve essere ritenuto come principio di
riferimento nel diritto internazionale, poiché non appare possibile perseguire
lo sviluppo materiale e spirituale dei popoli senza dare loro lo strumento per
prendere in mano il proprio destino: ma ciò non è da non intendersi secondo una
prospettiva individualista; 5) a questo scopo, i popoli devono porre le loro
aspirazioni in relazione al bene comune dell’unità politica alla quale sono
legati, come pure al bene generale di una regione e dell’umanità; questo punto
diventa di particolare importanza nel momento in cui le migrazioni rompono
l’unità culturale dei diversi paesi e in cui il diritto delle minoranze chiede
di essere precisato; 6) i popoli devono imparare ad avere ben presente il fatto
che ognuno di essi aspira ad “essere di più” (Paolo VI, Populorum progressio,
6), ma che non avendo tutti raggiunto lo stesso grado di sviluppo, e
concependone in modo differente le diverse tappe, le relazioni pacifiche fra i
popoli sono condizionate dalla ricerca di una mutua comprensione nel dialogo.
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