Oggi più che
mai, per far fronte all'aumento della popolazione e per rispondere alle
crescenti aspirazioni del genere umano, giustamente si tende ad incrementare la
produzione di beni nell'agricoltura e nell'industria e la prestazione dei
servizi. Perciò sono da favorire il progresso tecnico, lo spirito di
innovazione, la creazione di nuove imprese e il loro ampliamento, l'adattamento
nei metodi dell'attività produttiva e dello sforzo sostenuto da tutti quelli
che partecipano alla produzione, in una parola tutto ciò che possa contribuire
a questo sviluppo (140). Ma il fine ultimo e fondamentale di tale sviluppo non
consiste nel solo aumento dei beni prodotti, né nella sola ricerca del profitto
o del predominio economico, bensì nel servizio dell'uomo: dell'uomo
integralmente considerato, tenendo cioè conto della gerarchia dei suoi bisogni
materiali e delle esigenze della sua vita intellettuale, morale, spirituale e
religiosa; di ogni uomo, diciamo, e di ogni gruppo umano, di qualsiasi razza o
continente. Pertanto l'attività economica deve essere condotta secondo le leggi
e i metodi propri dell'economia, ma nell'ambito dell'ordine morale (141), in
modo che così risponda al disegno di Dio sull'uomo (142). (Costituzione
pastorale Gaudium et Spes n. 64 – Concilio Vaticano II 7/12/1965).
Nel linguaggio comune troviamo sempre più spesso
termini come crescita, progresso,
sviluppo, ecc., ma quello che mi
pare di cogliere, dall’uso che ne fa la maggior parte delle persone con cui
vengo a contatto, è l’esistenza di una
sostanziale analogia tra i diversi
termini che non comporta molta differenza e che li rende quasi sinonimi. Quello
che mi propongo pertanto in queste poche righe è di attirare l’attenzione, non
solo sull’importanza di discernere tra i diversi termini, ma di approfondire tramite
una piccola riflessione intellettuale, il significato etico della differenza
tra crescita e sviluppo nonché degli attributi integrale
o sostenibile che vengono solitamente
posti loro accanto per renderne più pieno il contenuto etico. Andando per gradi quindi cerchiamo di
inquadrare i concetti nel loro ambito specifico. Quando parliamo di crescita ne
parliamo solitamente in senso fisico, oppure in senso economico, esiste però
anche un’ulteriore accezione che potremmo dire esistenziale. Per quanto
riguarda il senso fisico indichiamo una modificazione che avviene con il
passare del tempo in ciascuna realtà vivente che cresce o no grazie
all’accumulazione di sostanze energetiche nutritive. Quando il termine crescita
invece è attribuito alla realtà economica allora dobbiamo vederla come una
accumulazione di ricchezza in regime di stabilità produttiva. Vale a dire che
si è in presenza di una accumulazione di ricchezza e di beni, senza che vi
siano innovazioni di processo o prodotto, in quanto la domanda essendo di poco
superiore all’offerta permette di produrre di più nel breve periodo con l’impiego dei medesimi
fattori di produzione, senza perciò effettuare ulteriori investimenti. Quando
per contro, usiamo il termine crescita con accezione intellettuale o formativa,
intendiamo riferirci alle aggiuntive possibilità professionali che scaturiscono
dalle capacità esistenti che ciascuno
riesce a mettere a frutto sulla base di una formazione che fornisca competenze
distintive e questo avviene sia in termini professionali e di lavoro, che in
termini intellettuali ed attitudinali nel rivestire un ruolo. La crescita
pertanto possiamo definirla come la variazione aggiuntiva in termini fisici,
economici o personali che si concretizza attraverso l’accumulazione di energie,
beni e conoscenze che non comportano innovazioni di processo. Senza dilungarci
troppo si intuisce immediatamente che ben altro contenuto corrisponde alla
parola sviluppo. Infatti quando parliamo di sviluppo non intendiamo parlare di
accumulazione o di crescita di qualche cosa, bensì di trasformazione, vale a
dire che non consideriamo il carattere aggiuntivo della medesima condizione,
quanto più il carattere trasformativo operato da un elemento innovativo che
viene non già ad accrescere bensì a cambiare la realtà esistente. Infatti in
termini fisici parliamo di sviluppo, quando avviene un cambiamento oggettivo
nel processo di crescita, basta fare un esempio e pensare alla cosiddetta età dello sviluppo che segue
l’adolescenza in cui l’innovazione nell’essere umano è data dalla sua
possibilità di procreare sulla base di un processo innovativo che trasforma in
maniera definitiva la bambina in donna e il bambino in uomo. La stessa cosa
dicasi per lo sviluppo in economia dove lo sviluppo avviene per una innovazione
nel processo di produzione che trasforma le possibilità, e, anche qui può esser
fatto l’esempio tra la crescita che avveniva nella fabbrica fordista con
l’aumento delle maestranze e lo sviluppo che avviene attraverso l’invenzione di
un nuovo Microchip nella Silicon valley: mentre nella prima ipotesi per far
crescere la produzione bastava assumere ulteriore personale, nella seconda lo
sviluppo avviene attraverso una invenzione o una trasformazione tecnologica che
prevede la produzione ed il suo possibile aumento senza impiego di
personale. Infine lo sviluppo in termini
di lavoro, professionale, intellettuale o attitudinale si avverte in maniera
decisa, per fare degli esempi, quando c’è una trasformazione innovativa, quando
cioè da studente si passa a fare il professore, quando da impiegato esecutivo
si diviene direttore, quando da lettore di romanzi si diviene autore di libri
oppure quando si cambia ruolo nella propria realtà personale come per il
seminarista che diviene sacerdote. Credo che a questo punto la differenza sia
abbastanza chiara per tutti. Ma andiamo a definire anche il significato etico
dei termini integrale e sostenibile. Per
quanto riguarda il termine crescita anche se a volte viene abbinato ai due
attributi in realtà gli stessi misurano meglio il concetto di sviluppo. Allora
cerchiamo di collocare il concetto di sviluppo sostenibile. Di solito la
maggior parte di coloro che si occupano di economia etica, fanno risalire
questo concetto al 1987 al cosiddetto rapporto
della Commissione Brundtland che intitolò lo studio “Il futuro di tutti noi”
come primo riferimento. Il rapporto prende avvio sottolineando come il mondo si
trovi davanti ad una "sfida globale" a cui può rispondere solo
mediante l'assunzione di un nuovo modello di sviluppo definito "sostenibile".
Per sviluppo sostenibile si intende "far sì che esso soddisfi i bisogni
dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di
rispondere alle loro". "Lo sviluppo sostenibile, lungi
dall'essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto processo di
cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli
investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti
istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali".
In realtà credo che sia importante, senza nulla togliere a tale Rapporto,
sottolineare che tale termine era già stato ampiamente introdotto dalle definizioni
autentico ed integrale contenute nell’enciclica
Popolorum Progressio del 1967 dove al punto 14 recita: “Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, dev'essere integrale, il che vuol dire
volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo. Com'è stato giustamente
sottolineato da un eminente esperto: «noi non accettiamo di separare
l'economico dall'umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che
conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a comprendere
l'umanità intera».(15).
Questo è possibile perché l’uomo deve fare una distinzione tra l’”avere” e
l’”essere” grazie alla sua capacità di giudizio, per cui lo sviluppo non è da
intendersi solo e tanto nella sua realtà economica, quanto più come unità di
misura in grado di orientare la sua umanità verso la sua vocazione di uomo “visto nella sua globalità, ossia secondo un
suo parametro interiore”. (S.R.S.n.29). Lo sviluppo sostenibile dunque non
riguarda soltanto capacità e progresso tecnologico, ma coinvolge direttamente
la libertà dell’uomo negli elementi più profondi della propria responsabilità
sia orizzontale che verticale, nella certezza che la sua realtà infravalente
non gli permette di andare oltre i limiti etici della propria creaturalità.
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