“..Ma quando si accoglie nella propria amicizia uno che si ritiene buono, ma poi quello risulta malvagio e ce se ne accorge, si deve forse amarlo ancora? Non è forse vero che non è possibile, dal momento che non ogni cosa è amabile, (15) ma solo ciò che è buono? E, poi, l’uomo malvaglio non è degno di essere amato, e non si deve amarlo. Infatti, non bisogna essere amanti del vizio, né rendersi simili al cattivo: si è poi detto che il simile è amico del simile. Bisogna, dunque, sciogliere l’amicizia subito? Non è forse vero che non bisogna farlo con tutti, ma solo con quelli la cui perversità sia incorreggibile, mentre quelli che hanno la possibilità di raddrizzarsi si deve aiutarli ad emendare il carattere, (20) più che non a ricostruire il patrimonio, tanto più quanto ciò è più nobile e più proprio dell’amicizia? Tuttavia, si ammetterà che chi scioglie l’amicizia in questo caso non fa nulla di strano; infatti, non è di un uomo di tal fatta che era amico; quindi non essendogli possibile salvare l’amico che si è trasformato, se ne separa….”. (Aristotele, Etica Nicomachea IX,2-3 1165b 10-20 pag. Ed. Rusconi Libri, pag. 343-345).
Oggi
non si sente quasi mai parlare di censura
sociale. E’ un concetto che la dinamica relazionale odierna non sa
collocare all’interno del proprio vissuto. Oggi si parla di indignazione, di riprovazione, di vergogna, di disapprovazione, mai però di censura sociale. Sì, qualcuno si
chiederà, ma a proposito di che? A proposito di comportamenti non rispettosi
delle regole. Ma di quali regole? Ovviamente di ogni tipo, anche se, per quanto
scontato, qui ci si riferisce a regole d’ordine morale. Infatti le regole
giuridiche comportano già di per sé una sanzione; mentre le regole morali
sembrano appunto non averne, se non si dà peso al cosiddetto rimorso. Sulla natura del rimorso avremo
modo di tornare in un’altra occasione. Ora per non disperderci vorrei
focalizzare l’attenzione su questo tipo di sanzione: la censura sociale.
Siccome
a livello concettuale appare difficile configurarne la natura, cerchiamo
innanzitutto di darne una definizione più puntuale del significato, pur se è
già in qualche modo insito nel brano di apertura sopra riportato tratto dall’Etica
Nicomachea di Aristotele.
La
censura sociale è un aspetto
comportamentale della nostra scelta relazionale di fronte a nostri simili:
persone cioè che vivono nel nostro medesimo ambiente, che hanno le nostre
medesime potenzialità ed i nostri medesimi obblighi le cui decisioni, scelte o
azioni ad un giudizio obiettivo risultino aver violato le regole, con il
carattere aggravante e connotativo del raggiro della buonafede.
Quindi
l’elemento discriminante dell’azione sottoposta a giudizio è, non tanto la
natura di reato o di crimine, che potrebbe anche non sussistere, quanto più il
tradimento della fiducia. Il venire meno ad una parola data. La violazione
imprevista di una legittima attesa.
Questo tradimento impone una reazione da parte di chi lo ha subito: per
l’appunto la censura sociale.
Di
fronte a fatti che tradiscono la fiducia pubblica, non ci può essere solo un
sentimento di disapprovazione o di indignazione. Ci deve essere una presa di
posizione precisa, una manifestazione di volontà relazionale fortemente
identitaria; una scelta di separarsi pubblicamente da chi o da coloro che hanno
tradito la fiducia di altri.
E’
molto importante sottolineare l’aspetto interiore della violazione per
comprendere due elementi importanti di chi deve praticare la censura sociale.
Il primo rappresentato dalla coscienza ed il secondo dalla necessità di
differenziarsi da colui che ha violato le regole.
Così
non basta infatti solo indignarsi, occorre bensì porre in atto una separazione
decisa da chi assume comportamenti non rispettosi delle regole morali: la
censura sociale. Vale a dire mettere al bando chi infrange le regole
dichiarandolo apertamente e con comportamenti di pubblico biasimo. Allora ciò
presuppone la coscienza dell’esistenza delle regole e con questa anche la
coscienza del rispetto delle regole. Concetto infatti che non è mai evidenziato,
se non da chi crede profondamente nella realtà dell’etica in termini di
conoscenza del bene e della possibile azione atta a riprodurlo. La coscienza del rispetto delle regole è
qualcosa che si rifà ad un principio di moralità insito nell’uomo. Un principio
che la storia ha pian piano stravolto con la tecnica del premio/castigo creato
dall’obbedienza alla regola. Ma l’obbedienza non crea coscienza perché il
comportamento è determinato dalle guidelines premio-castigo. Non c’è libertà di
scelta. Non c’è volontà di assunzione autonoma di responsabilità. C’è solo la
necessità di adeguarsi alla regola per evitare il castigo, quasi che il premio
a volte sia dato proprio dal non ricevere il castigo. Ma questo è il principio
della giustizia umana. Quel principio di legalità che attiene al livello
organizzativo. Alla necessità di darsi delle regole per poter convivere nella
società. Il principio di moralità invece attiene al livello esistenziale ed
individuabile sul piano etico. Esso è dato dal riconoscimento profondo
dell’umanità insita in ciascuno di noi, della dignità connaturata nella
personalità di ciascun essere umano che misura la sua responsabilità sia
orizzontale verso chi gli è vicino nel contingente, sia verticale cioè verso
chi lo ha creato e verso le generazioni future.
Ecco
allora la scelta di separarsi da chi assuma comportamenti illegali e
soprattutto immorali. Solo se avremo il coraggio di esercitare la censura
sociale nei confronti di coloro che scelgono un agire immorale, ma a cominciare
dalle piccole cose. A cominciare dal rispetto delle minime regole, non per
paura delle punizioni, bensì perché così facendo si crea l’orientamento al
rispetto delle regole dando testimonianza trainante delle proprie scelte. Solo
così facendo si dimostra di essere uomini e di agire per intelletto. Ricorderei
infatti una frase di Kant nel suo volume “Critica della ragion pratica” Ed.
Rusconi libri, a pag. 165: “Il rispetto per la legge morale è, dunque, un
sentimento che nasce su un fondamento intellettuale; e questo sentimento è il
solo che possiamo conoscere interamente a priori, e di cui possiamo scorgere la necessità.” Perché ,
sottolinea alcune righe dopo “…Ora, la legge morale, che è la sola veramente
(cioè sotto tutti i rispetti) oggettiva, esclude interamente l’influenza
dell’amor di sé sul principio pratico supremo, e offende infinitamente la
superbia, che prescrive come leggi le condizioni soggettive di quello. Ma ciò
che nel nostro giudizio, offende la superbia, ci umilia. Dunque, la legge
morale umilia inevitabilmente ogni uomo, quando egli paragona con essa la
tendenza sensibile della sua natura. Ciò che, rappresentato come fondamento di
determinazione della nostra volontà, ci umilia nella nostra autocoscienza,
suscita per sé, in quanto è positivo e costituisce un motivo determinante,
rispetto. “ Di qui la necessità di
distinguersi operando la censura sociale.
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