etica

"... Non vogliate negar l'esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza". (Dante, Inferno canto XXVI, 116-120).


lunedì 14 maggio 2012

La censura sociale ed etica



“..Ma quando si accoglie nella propria amicizia uno che si ritiene buono, ma poi quello risulta malvagio e ce se ne accorge, si deve forse amarlo ancora? Non è forse vero che non è possibile, dal momento che non ogni cosa è amabile, (15) ma solo ciò che è buono? E, poi, l’uomo malvaglio non è degno di essere amato, e non si deve amarlo. Infatti, non bisogna essere amanti del vizio, né rendersi simili al cattivo: si è poi detto che il simile è amico del simile. Bisogna, dunque,  sciogliere l’amicizia subito? Non è forse vero che non bisogna farlo con tutti, ma solo con quelli la cui perversità sia incorreggibile, mentre quelli che hanno la possibilità di raddrizzarsi si deve aiutarli ad emendare il carattere, (20) più che non a ricostruire il patrimonio, tanto più quanto ciò è più nobile e più proprio dell’amicizia? Tuttavia, si ammetterà che chi scioglie l’amicizia in questo caso non fa nulla di strano; infatti, non è di un uomo di tal fatta che era amico; quindi non essendogli possibile salvare l’amico che si è trasformato, se ne separa….”. (Aristotele, Etica Nicomachea  IX,2-3 1165b 10-20 pag. Ed. Rusconi Libri, pag. 343-345).


Oggi non si sente quasi mai parlare di censura sociale. E’ un concetto che la dinamica relazionale odierna non sa collocare all’interno del proprio vissuto. Oggi si parla di indignazione, di riprovazione,  di vergogna, di disapprovazione, mai però di censura sociale. Sì, qualcuno si chiederà, ma a proposito di che? A proposito di comportamenti non rispettosi delle regole. Ma di quali regole? Ovviamente di ogni tipo, anche se, per quanto scontato, qui ci si riferisce a regole d’ordine morale. Infatti le regole giuridiche comportano già di per sé una sanzione; mentre le regole morali sembrano appunto non averne, se non si dà peso al cosiddetto rimorso. Sulla natura del rimorso avremo modo di tornare in un’altra occasione. Ora per non disperderci vorrei focalizzare l’attenzione su questo tipo di sanzione: la censura sociale.
Siccome a livello concettuale appare difficile configurarne la natura, cerchiamo innanzitutto di darne una definizione più puntuale del significato, pur se è già in qualche modo insito nel brano di apertura sopra riportato tratto dall’Etica Nicomachea di Aristotele.
La censura sociale è un aspetto comportamentale della nostra scelta relazionale di fronte a nostri simili: persone cioè che vivono nel nostro medesimo ambiente, che hanno le nostre medesime potenzialità ed i nostri medesimi obblighi le cui decisioni, scelte o azioni ad un giudizio obiettivo risultino aver violato le regole, con il carattere aggravante e connotativo del raggiro della buonafede.
Quindi l’elemento discriminante dell’azione sottoposta a giudizio è, non tanto la natura di reato o di crimine, che potrebbe anche non sussistere, quanto più il tradimento della fiducia. Il venire meno ad una parola data. La violazione imprevista  di una legittima attesa. Questo tradimento impone una reazione da parte di chi lo ha subito: per l’appunto la censura sociale.
Di fronte a fatti che tradiscono la fiducia pubblica, non ci può essere solo un sentimento di disapprovazione o di indignazione. Ci deve essere una presa di posizione precisa, una manifestazione di volontà relazionale fortemente identitaria; una scelta di separarsi pubblicamente da chi o da coloro che hanno tradito la fiducia di altri.
E’ molto importante sottolineare l’aspetto interiore della violazione per comprendere due elementi importanti di chi deve praticare la censura sociale. Il primo rappresentato dalla coscienza ed il secondo dalla necessità di differenziarsi da colui che ha violato le regole.
Così non basta infatti solo indignarsi, occorre bensì porre in atto una separazione decisa da chi assume comportamenti non rispettosi delle regole morali: la censura sociale. Vale a dire mettere al bando chi infrange le regole dichiarandolo apertamente e con comportamenti di pubblico biasimo. Allora ciò presuppone la coscienza dell’esistenza delle regole e con questa anche la coscienza del rispetto delle regole. Concetto infatti che non è mai evidenziato, se non da chi crede profondamente nella realtà dell’etica in termini di conoscenza del bene e della possibile azione atta a riprodurlo.  La coscienza del rispetto delle regole è qualcosa che si rifà ad un principio di moralità insito nell’uomo. Un principio che la storia ha pian piano stravolto con la tecnica del premio/castigo creato dall’obbedienza alla regola. Ma l’obbedienza non crea coscienza perché il comportamento è determinato dalle guidelines premio-castigo. Non c’è libertà di scelta. Non c’è volontà di assunzione autonoma di responsabilità. C’è solo la necessità di adeguarsi alla regola per evitare il castigo, quasi che il premio a volte sia dato proprio dal non ricevere il castigo. Ma questo è il principio della giustizia umana. Quel principio di legalità che attiene al livello organizzativo. Alla necessità di darsi delle regole per poter convivere nella società. Il principio di moralità invece attiene al livello esistenziale ed individuabile sul piano etico. Esso è dato dal riconoscimento profondo dell’umanità insita in ciascuno di noi, della dignità connaturata nella personalità di ciascun essere umano che misura la sua responsabilità sia orizzontale verso chi gli è vicino nel contingente, sia verticale cioè verso chi lo ha creato e verso le generazioni future. 
Ecco allora la scelta di separarsi da chi assuma comportamenti illegali e soprattutto immorali. Solo se avremo il coraggio di esercitare la censura sociale nei confronti di coloro che scelgono un agire immorale, ma a cominciare dalle piccole cose. A cominciare dal rispetto delle minime regole, non per paura delle punizioni, bensì perché così facendo si crea l’orientamento al rispetto delle regole dando testimonianza trainante delle proprie scelte. Solo così facendo si dimostra di essere uomini e di agire per intelletto. Ricorderei infatti una frase di Kant nel suo volume “Critica della ragion pratica” Ed. Rusconi libri, a pag. 165: “Il rispetto per la legge morale è, dunque, un sentimento che nasce su un fondamento intellettuale; e questo sentimento è il solo che possiamo conoscere interamente a priori, e di cui possiamo scorgere la necessità.” Perché, sottolinea alcune righe dopo “…Ora, la legge morale, che è la sola veramente (cioè sotto tutti i rispetti) oggettiva, esclude interamente l’influenza dell’amor di sé sul principio pratico supremo, e offende infinitamente la superbia, che prescrive come leggi le condizioni soggettive di quello. Ma ciò che nel nostro giudizio, offende la superbia, ci umilia. Dunque, la legge morale umilia inevitabilmente ogni uomo, quando egli paragona con essa la tendenza sensibile della sua natura. Ciò che, rappresentato come fondamento di determinazione della nostra volontà, ci umilia nella nostra autocoscienza, suscita per sé, in quanto è positivo e costituisce un motivo determinante, rispetto. “  Di qui la necessità di distinguersi operando la censura sociale.

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