Carità, “fuoco interiore” per aiutare gli altri. P. Josep Joblin così terminava il suo precedente contributo su La sussidiarietà: “… i
due concetti che completano l’insegnamento sociale della Chiesa in questo
contesto, (sono) quelli di persona e di solidarietà”. Su tali concetti, a
completamento della sua riflessione precedente,
l’odierno approfondimento.
Alba
Dini Martino
Le idee di persona e di solidarietà sono familiari nel mondo occidentale e
cristiano: ciascuno ne ha nozione; ciascuno è cosciente di essere distinto
dagli altri pur avendo una responsabilità a loro riguardo. Certamente, in tutte le civiltà è possibile osservare
senso di responsabilità nei confronti di coloro che la vita ha maltrattato e
sarebbe facile portare magnifici esempi di generosità, ma è nelle donne e negli
uomini segnati dal cristianesimo, come Madre Teresa per esempio, il senso di un
dovere urgente e universale; esiste in effetti un legame fra persona e
solidarietà che è necessario spiegare.
Ciò
suggerisce, tuttavia, di spiegare innanzitutto cos’è una persona; essa è
caratterizzata nella nostra cultura dalla consapevolezza che ciascuno prova di
essere inviolabile, uguale agli altri, libero e responsabile; si tratta in
questo caso di valori o principi fondamentali che ci sembrano così evidenti da
non aver bisogno di essere dimostrati e noi giudichiamo le situazioni nelle
quali ci troviamo nella misura in cui non contraddicono questo dato
fondamentale o permettono di inscriverlo più profondamente nella realtà. Tale
senso della dignità di ogni essere umano ci viene dalla filosofia greca e dalla
Bibbia; dalla filosofia greca, secondo la quale
la grandezza dell’uomo deriva dal fatto che egli può dominare le forze
della natura in luogo di credersi sottoposto ad un destino inesorabile; dalla
Bibbia che fin dalla prima pagina, ci mostra Adamo ed Eva responsabili di
rendere feconda la terra rispettando un ordine oggettivo, quello del Bene e del
male; dal Vangelo in cui Cristo chiama ciascuno alla conversione interiore del
cuore per rifiutare le opere delle tenebre e
impegnarsi in quelle della Luce. Il cristianesimo ha rafforzato la
coscienza del valore unico di ogni persona, affermando che ognuno è
responsabile del suo destino eterno; una tale consapevolezza rimane più o meno
chiara anche in coloro che si sono allontanati dalla fede, perché anche per
loro la nozione di persona conserva un significato esigente.
Il
senso religioso della persona si è oggi un po’ attenuato, non si può non
convenirne. Tutta una corrente di pensiero si è sviluppata e imposta a partire
dal XVIII secolo sotto l’influenza della filosofia dei Lumi la cui ambizione
era quella di salvaguardare il valore di ogni essere umano recidendolo dal suo
fondamento religioso; ha avuto inizio ciò a cui si assegna il termine generale
di individualismo. Questa corrente di pensiero si è diffusa a tal punto che i
cristiani immersi in questa atmosfera, ne sono stati impregnati; il liberalismo
o individualismo li hanno abituati a modificare il loro sguardo sulla società;
in luogo di vedere nelle persone sfortunate, in colui che la vita non ha
favorito un fratello che bisogna aiutare ad uscire dalla sua situazione, ci
vedono troppo spesso un povero che basta aiutare con un’elemosina; la parola
carità è stata quindi svalutata; invece di percepirla come un “fuoco interiore”
(Paolo VI) che spinge ad aiutare gli altri al di là del possibile o a cambiare
alcune strutture della società che sono largamente responsabili della loro
“miseria immeritata”, (quelle che Giovanni Paolo II chiamerà le “strutture di
peccato”), la carità è ridotta ad una assistenza il più delle volte materiale.
Si è arrivati a scrivere, ancora nel 1893: “i ricchi sono gli amministratori
dei poveri. Ecco la dottrina: il superfluo degli uni, deve, attraverso il
canale della carità, servire alle necessità degli altri … le disuguaglianze
sociali sono una legge della Provvidenza e, se posso osare di esprimermi così,
una legge di grazia e, insieme, una legge della natura” (A. Leroy-Beaulieu). In
questo modo si diffuse in molti spiriti la concezione che riduceva la persona
ad essere niente altro che un individuo invitato ad accondiscendere alla
miseria degli altri, senza avere alcun dovere di solidarietà al suo riguardo.
La
reazione contro la mentalità descritta ha cominciato a farsi strada l’opinione
fra le due guerre mondiali. Rimarrà a gloria di Pio XI di essere stato il Papa
che ha denunciato i totalitarismi in nome del rispetto dovuto alla persona
umana; mostrando in tal modo che le istituzioni devono essere al servizio “di
ogni uomo e di tutto l’uomo” (Paolo VI, Populorum Progressio, 14), poiché la
“costruzione di un mondo più umano” richiede “una compartecipazione efficace
degli uni con gli altri in un clima di eguale dignità” (id., 54); in una
parola, la crescita umana di ognuno non può realizzarsi indipendentemente da
quella degli altri membri della società. Questa prospettiva ha aperto la via
all’idea dello sviluppo dei popoli. Ciò è stato preso in considerazione a
partire dall’inizio della Guerra del 1939, sia da Roosevelt che da Pio XII, il
quale fin dal 1940 augurava nella sua omelia Il Vangelo (24 novembre) lo
stabilirsi “di un ordine più equo e unanime basato (sulla virtù della)
giustizia …; un ordine che tenda ad attribuire a tutti i popoli, nella tranquillità,
nella libertà e nella sicurezza, la parte ad ognuno di essi in questa terra
spettante, delle fonti della prosperità e della potenza, affine di rendere loro
possibile l’adempimento della parola del creatore: Crescete, moltiplicatevi e
riempite la terra”. E la filosofia della persona qui sottesa è da ben
capire.
Non
si può più pensare oggi l’individuo senza vedere in lui una persona, cioè un
essere che si riconosca in quanto responsabile, in seno al movimento generale
delle società; ciò implica una crescita che trascina tutti gli uomini e tutte
le donne verso una riconciliazione, una unità generale. Nessuno di noi può
“crescere in umanità” rimanendo isolato dagli altri, perché è accettando di
sentirsi effettivamente responsabile dei loro propri progressi che egli
arricchisce anche se stesso in vista del fine per il quale è stato creato. Una
tale visione un po’ astratta assume tutto il suo significato in un
cristianesimo personalmente vissuto, poiché dipende dall’accettazione
dinamizzante della condizione dell’essere umano creato ad immagine di Dio, cioè
capace di amare gli altri fino al punto di sacrificarsi per loro; cosa che ci
mostra ogni giorno la dedizione delle madri di famiglia a coloro che le
circondano.
Il
Cristo Dio-Uomo è qui il modello, poiché unisce in Lui stesso una duplice
disposizione: da una parte, ci insegna l’umiltà avendo rinunciato alla sua
condizione divina per farsi uomo (Phil.2, 6-8), mostrando fino a qual punto può
giungere la disposizione della umiltà per la quale il cristiano rinuncia a ogni
pretesa di dominio e, d’altra parte, l’idea di servizio agli altri che può
arrivare fino al sacrificio dei propri interessi. Tale è il
livello al quale ci eleva la fede cristiana; ci fa scoprire che il nostro
proprio sviluppo dipende dalla disposizione di servizio nella quale ci mettiamo
di fronte agli altri.
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